16 aprile 2010

Trieste, due liberazioni e nessuna

1945, la città di confine vede esplodere i suoi contrasti: slava e italiana, cattolica e laica, «rossa» e libera. Parla lo storico Pupo
di francesco Dal Mas
«Trieste è nostra, ma l’abbiamo perduta». La frase è attribuita a Togliatti, che l’avrebbe pronuncia­ta a Mosca, prima del suo rientro in Italia nel marzo 1944. Lo ricorda Raoul Pupo, lo storico più accredi­tato delle vicende del confine orientale, in Trieste ’45 in libreria da oggi per Laterza (sarà presentato il 21 aprile alle 18 alla Scuola per in­terpreti di Trieste). «A riferirlo è un personaggio che Togliatti lo cono­sceva bene, Vincenzo Bianco, pie­montese, comandante in Spagna, rappresentante del Pcd’I nel Ko­mintern, tra i firmatari nel maggio 1943 del decreto di scioglimento dell’organizzazione, poi paracadu­tato in Jugoslavia presso il quartier generale di Tito. Le circostanze in cui ciò avviene lasciano spazio a qualche dubbio, tuttavia esprimo­no piuttosto bene l’animus con cui il gruppo dirigente del Pci affronta la crisi apertasi al confine orientale d’Italia. Molti sospettano l’estrema sinistra di cedimenti motivati ideo­logicamente nei confronti delle ri­vendicazioni jugoslave. E nel mar­zo 1944 alcuni esterrefatti antifa­scisti moderati giuliani si sentono dire dal vicepresidente del Clnai, il liberale Pizzoni, che nella migliore delle ipotesi nel dopoguerra Trieste sarebbe diventata una città libera».
Professore, dopo «Il lungo esodo», storia di un popolo in esilio, ora racconta la sua città, Trieste. Per­ché ha avvertito tale esigenza?
«Nel 1945 Trieste è un luogo di in­croci. Due liberazioni – una da est e una da ovest – che si sovrappon­gono e generano la prima crisi in­ternazionale del dopoguerra. Due resistenze, che collaborano fino a quando una non cerca di divorare l’altra. Due nazioni che sono cre­sciute separate nella medesima ca­sa e hanno imparato ad odiarsi pri­ma che a conoscersi. Due partiti comunisti che, obbedendo en­trambi a Stalin, guardano in dire­zioni diverse, il parlamentarismo e la rivoluzione, e non si capiscono. Studiare gli incroci è uno dei modi migliori per aprire porte sulla sto­ria – non di Trieste, ma dell’Italia e della Jugoslavia – senza restare pri­gionieri degli schemi del passato».
Trieste è stata sempre una città lai­ca. Fino al 1945 i cattolici hanno contato poco nella sua storia. Nell’Ottocento i vescovi sono stati quasi tutti tedeschi o slavi. Poi tut­to cambia. Che cosa accade?
«Tutto cambia principalmente con l’opera di due uomini, due sacer­doti. Il primo, il vescovo monsignor Santin, come molti altri presuli ita­liani dopo l’8 settembre 1943 eser­cita il ruolo di defensor civitatis di­ventando l’unico punto di riferi­mento credibile per una comunità italiana allo sbando. La medesima funzione continuerà a svolgerla ancora nel dopoguerra, portando la tradizionale classe dirigente lai­ca della città ad affidarsi a lui. Il se­condo, monsignor Edoardo Marza­ri, è l’unico sacerdote italiano che, proprio in quanto tale, diventa il presidente di un Cln. Attraverso la resistenza l’italianità giuliana, gra­vemente compromessa col fasci­smo, trova una nuova legittimità politica. È proprio sull’esperienza del Cln giuliano, perseguitato pri­ma dai nazisti e poi dai comunisti jugo­slavi, che si fonderà nel dopoguerra la co­struzione di un siste­ma democratico».
Il tema delle foibe è sempre attuale. An­che di recente alcuni studiosi hanno so­stenuto che le stragi di italiani sono solo un’invenzione pro­pagandistica.
«Magari... È ovvio che tragedie di quelle dimensioni – si tratta di al­cune migliaia di morti – negli anni delle più aspre lotte nazionali e po­litiche siano state utilizzate per di­fendere la causa dell’italianità, an­che con parecchie esagerazioni.
Ma lo si è potuto fare perché la sto­ria, purtroppo, era vera. Nel libro cerco di spiegare come le foibe rappresentino l’estrema propaggi­ne occidentale dell’ondata di vio­lenza che nella primavera del 1945 copre i territori jugoslavi, in cui il movimento di liberazione a guida comunista caccia i tedeschi ed as­sume il potere. I morti sono in tutta l’area molte decine di migliaia, fra coloro che hanno collaborato con gli occupatori o che, comunque, si oppongono al nuovo regime».
Chiariamo, dunque: perché ci so­no stati gli infoibamenti?
«Nella Venezia Giulia le vittime sono ovvia­mente quasi tutti ita­liani, perché agli oc­chi dei partigiani di Tito costoro incarna­no il fascismo e uno Stato nemico e occu­patore. Non si tratta solo di punire i prota­gonisti delle prece­denti ondate di vio­lenza, quelle a danno degli slavi, purtroppo anch’esse ben vere, ma anche e soprattutto di distruggere il potere italiano, di eli­minare i 'nemici del popolo' che vogliono opporsi all’annessione al­la Jugoslavia e al comunismo, e di intimidire la popolazione affinché si pieghi al nuovo ordine».
Si può parlare di violenza di Stato?
«Sì. Una violenza di Stato strategi­camente ben diversa da quella che nel dopoguerra insanguina anche molte regioni italiane».
Dopo più di 60 anni da quei lutti e quelle divisioni, è possibile arriva­re a una memoria condivisa?
«Direi proprio di no».
Come no?
«La memoria è soggettiva e le tra­gedie personali non sono inte­scambiabili. Quello che invece cre­do fattibile, e quindi doveroso, è il rispetto di tutte le memorie, anche le più difficili. Si può fare anche un passo più in là, e cioè mirare alla 'purificazione delle memorie' nel­la consapevolezza che tutte pre­sentano anche lati oscuri, come premessa alla riconciliazione delle persone e delle comunità. Questo è quanto da anni stanno cercando di fare le Chiese di confine, per il mo­mento in Italia e Slovenia, con pa­zienza e umiltà».
Lungo tale strada si muovono an­che gli storici dei Paesi confinanti?
«Qualche volta sì ed altre no. Ci so­no alcuni studiosi, di varie genera­zioni, convinti ancora che il loro scopo sia quello di far trionfare la visione della storia elaborata dalla propria cultura nazionale, sbugiar­dando gli avversari di sempre. Altri invece credono che anche in que­sta parte di Europa sia venuto il tempo di scrivere una storia post­nazionale, cioè capace di guardare al passato anche attraverso gli oc­chi degli altri. Non è facilissimo, ma ci stiamo provando».
«Avvenire» del 16 aprile 2010

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