07 aprile 2010

Se i romanzieri non tollerano più la critica


di Massimo Onofri
Nell’ultimo romanzo, «Il nipote del Negus» (Sellerio), Camilleri gioca coi suoi critici e, mentre li abbiglia e li traveste, in qualche modo, per metafora, pure li giudica. Non altro mi pare il motivo per cui, a un certo punto, ci si imbatte nell’«agente Pedullà» e nel «Ferroni rag. Giovanni». Ma anche in alcuni «mercanti di bestiame» , delinquenti con «qualche precedente di poco conto», tra i quali si contano «Bonura Santo Giuseppe» («per offese») e «Onofri Minimo» («per appropriazione indebita»). Io, che minimo (nonostante il nome) effettivamente sono, ho sempre avuto e continuo ad avere non poche perplessità sullo scrittore siciliano (a fronte della simpatia che invece nutro per l’uomo), specie quello di Montalbano.


Ora Camilleri regola i conti: e lo fa con intelligente e gustosa ironia. Il fatto è, però, che l’atto di ribellione del narratore nei confronti dei suoi critici sta diventando un costume diffuso, non sempre riconducibile, per altro, ai modi civili e spassosi del giallista più famoso d’Italia. È notizia recente la reazione stizzita, sul suo blog, di Isabella Santacroce nei confronti di Renato Barilli – in passato suo fanatico e persino imbarazzante sponsor – che non avrebbe apprezzato come si doveva il suo «Lulù Delacroix» (Rizzoli). Si tratta, a dir la verità, dell’ultima aggressione tra tante: sempre più violente e irrazionali. Ecco: perché tanti narratori italiani, soprattutto i giovani, non accettano più di essere letti e giudicati? Perché preferiscono – ormai senza più collanti culturali e buoni studi, senza informazione, senza civiltà – autocelebrarsi, e magari autoproclamarsi – come accade sempre più spesso – il nuovo Proust o il nuovo Céline, con esiti non si sa se più ridicoli o da trattamento sanitario obbligatorio?
Rispondere a una recensione sarebbe stato – ancora ai tempi di Pampaloni, Gramigna e Baldacci – segno di poco gusto e scarsa intelligenza. Ma farlo senza argomenti, magnificando la propria genialità, risulta solo un sintomo, tra i troppi, dell’odierna barbarie.
L’esercizio dell’intelligenza critica – con faticosa assiduità sui libri degli altri (non i propri, si badi): non lo dimentichino i narratori, che spesso del tutto ignorano il nome e la storia di chi ha scritto di loro – oggi è diventato per molti irritante, in ogni aspetto della vita sociale, privata e pubblica, suscitando nervosismo e impazienza. Un segnale preoccupante. La critica è, nella sua essenza, naturalmente democratica, perché fonda la sua autorevolezza solo sugli argomenti e null’altro, davanti ai quali gli uomini sono tutti uguali. Ma perché gli argomenti contino, bisognerebbe che ci fosse una razionalità condivisa. E un’opinione pubblica che sappia esercitare un controllo sul Potere, qualsiasi Potere. Ci vorrebbe, appunto, la critica.
In assenza della quale prospera il narcisismo regressivo, l’egolatria, l’arroganza di chi urla di più.
In questo, purtroppo, la nostra piccola e mediocre società letteraria è solo lo specchio di un Paese alla deriva.
«Avvenire» del 7 aprile 2010

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