07 aprile 2010

Il circolo vizioso del potere

L’aggressività diffusa nella nostra società dipende da una lotta di egoismi. A cui bisogna rispondere spargendo generosità
di Salvatore Natoli
L’autorità diventa prepotente e perfino spietata quando si presenta col volto del bene Allora nessuno può fermarla e si autorizza a tutto, fino alla distruzione dell’avversario
Oggi la democrazia è in crisi non solo perché sono in crisi le for­me tradizionali di rappresentanza, ma anche e soprattutto perché il potere, seppure orizzontalmente distribuito, è tuttavia gestito da cerchie ristrette, e si concentra – specie quello economico – in poche mani. A ciò è da aggiungere che la democrazia procedurale – garanzia imprescindibile di ogni effettiva democrazia – di per sé non è sufficiente a evitare l’atomismo sociale: non riesce, per sé sola, a generare comunità. Capita allora di frequente che gli uomini si consideri­no reciprocamente come mezzi e re­ciprocamente si usino. Ora, una de­mocrazia può offrire garanzie suffi­cienti per non nuocersi, ma non è sufficiente a che gli uomini si ricono­scano, kantianamente, come fini. Cer­to, non è la forma politica perfetta, ma è quella – come si dice – «meno imperfetta».Sia pure con un’ideologia soft – l’e­sportazione della democrazia – si so­no aperti teatri di guerra «in nome di valori» e, così, si sono calpestati di­ritti umani elementari.
Proprio per questo è be­ne diffonderla. Tuttavia, c’è chi ritiene che per diffonderla sia legittimo im­porla, ma è improbabile che una de­mocrazia possa essere imposta, caso­mai può essere fatta maturare, asse­condata. Infatti, un potere diviene prepotente e perfino spietato non tanto quando è «normalmente» mal­vagio – per la naturale imperfezione degli uomini – ma quando si presenta con il volto del bene. Questo gli per­mette di arrogarsi il diritto di perpe­trare qualsiasi delitto, e nessuno può fermarlo, anzi esso si pone alla guida di una guerra senza quartiere per rea­lizzare un regime migliore, che poi è tale solo per il fatto di «ripetere» se stesso. In nome di giustizia e verità si pretende di fare adepti per la causa e ci si autorizza a tutto, fino alla totale distruzione dell’avversario, che non è semplicemente un nemico di guerra, l’ hostis, ma è l’ inimicus, il nemico da odiare, il «male assoluto» da sradica­re. Lo hanno fatto i regimi totalitari, ma anche oggi non si è perso il vizio.
Siamo certo lontani dal­la spietatezza dei totali­tarismi, ma la logica di fondo non è diversa: l’imposizione del bene.
Al bene, però, si può solo aderire: può essere scel­to, non imposto. Il potere può limitare i danni, e lo deve; ma per farlo deve, in primo luogo, limitare se stesso. Og­gi, invece, c’è una spietatezza che non si percepisce neppure come tale, in quanto rientra nella normalità. È ciò che Hannah Arendt ha chiamato la «banalità del male». Nel mondo c’è u­na diffusa tendenza all’appropriazio­ne, e perciò anche all’accaparramen­to del potere. Da sempre il potere rap­presenta una tentazione: il cupio dominandi è una dimensione antropo­logica, appartiene alla storia del mon­do.
Chi possiede il potere, più che considerarlo un servizio, lo ritiene un privilegio. Per questo si tende a con­quistarlo e, una volta acquisito, a non perderlo. Tramite esso, si cerca di av­vantaggiarsi sugli altri. Per la medesi­ma ragione non lo si cede facilmente, anzi si tende a difenderlo strenua­mente. E questo non riguarda solo l’e­sercizio del potere politico, ma la ge­stione di qualsiasi tipo di potere. Ogni potere ha la tendenza a mantenersi e, per imporsi, a intimorire. Ora, si ha paura quando ci si sente esposti nella propria persona, nella propria fami­glia, nei propri beni. Nella nostra so­cietà la lotta tra gli egoismi, l’offerta provocatoria di modelli sociali desi­derati da molti ma concessi a pochi, l’invidia degli esclusi, tutto questo mette in circolo un sentimento diffu­so di aggressività. Si tende quindi a tutelarsi, a difendere, anche legittima­mente, quel che si ha. Ciò spinge gli individui a richiedere sempre più si­curezza e a pretenderla dal potere po­litico. Ma un potere chiamato a repri­mere finisce per trarre sempre più au­torità dalla logica della forza. Sempre, soprattutto quando si vive in situazio­ni d’emergenza, ciò che in primo luo­go bisogna cercare di fare è individua­re le cause. Lamentarsi è inutile. Nel contempo, però, è necessario adotta­re condotte alternative, anche con scelte unilaterali. In breve, contro la violenza e la prepotenza bisogna far sbocciare la «generosità», che, come insegna Spinoza, «è la cupidità con cui ciascu­no si sforza per il solo dettame della ragione di aiutare gli altri uomini e di riunirli in amicizia». La generosità è una passio­ne al pari dell’odio, è cupiditas, ma non è «passio­ne triste»; è attiva, e non reattiva e perciò distrutti­va: infatti, allontana le passioni mal­vagie (affectus malos declinat), re­spinge le offese (injurias propulsat).
Per questo, al di là delle sconfitte, alla lunga vince e, per quel tanto che può, salva. Lo si è visto innanzi ai grandi crolli della storia.
«Avvenire» dell'8 aprile 2010

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