04 aprile 2010

Ora il Vaticano ammetta gli errori nella comunicazione

Le accuse alla Chiesa
di Vittorio Messori
Dopo le reazioni del mondo ebraico all’inciso dedicato alla «lettera dell’amico israelita»
Il più diplomatico è stato il rabbino responsabile dei rapporti con le altre religioni del Jewish Committee americano: «Quello del Predicatore Pontificio è stato probabilmente solo un uso sfortunato del linguaggio». Ben altre, lo sappiamo, le reazioni del mondo ebraico all’inciso dedicato alla «lettera dell’amico israelita» nell’omelia pronunciata davanti al Papa da padre Raniero Cantalamessa.
Un cappuccino che conosciamo dai tempi in cui era giovane, brillante docente di Nuovo Testamento alla Cattolica di Milano. Religioso non solo di grande cultura ma anche di autentica vocazione francescana, stupì tutti, dimettendosi da quella cattedra prestigiosa per consacrarsi interamente all’apostolato. Anche per l'equilibrio mostrato nelle pagine dei suoi molti best seller, padre Raniero fu chiamato al ruolo delicato e influente di Predicatore della Casa Pontificia.


Come aspettarsi un infortunio come quello del Venerdì Santo, da parte di uomo che allo zelo pastorale unisce la lunga esperienza e la prudenza, la prima delle virtù cristiane? Ma, innanzitutto: proprio di infortunio si è trattato? Completando la lettura «innocentista» del rabbino americano, ci pare che si debba parlare di inopportunità, considerate anche la sede e l'occasione liturgica, ma che le parole di padre Cantalamessa siano per qualcuno opinabili ma non condannabili. La consueta semplificazione giornalistica ha fatto credere che la persecuzione degli ebrei sia stata, scandalosamente, equiparata alla doverosa severità per la pederastia clericale. In realtà, se si va al testo, il Predicatore Pontificio ha precisato che non intendeva parlare della «sciagurata macchia della pedofilia che ha coinvolto anche elementi del clero», visto che «di questa già si è parlato e si parla molto fuori di qui». Ciò cui padre Raniero intendeva alludere era «l'attacco violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli cattolici in molte parti del mondo». L'oggetto era, insomma, quel crescente «complesso anticristiano» (e, in particolare, anticattolico) di cui su questo giornale parlava di recente anche Ernesto Galli della Loggia (Corriere del 21 marzo, ndr). Secondo Cantalamessa, ci sarebbero i segni di una persecuzione della Chiesa e dei suoi membri già in atto, ma che potrebbe peggiorare. Si tratta di segni che l'amico israelita, di cui ha letto la lettera, sarebbe in grado di identificare per dura esperienza, «sapendo, come ebreo, che cosa significhi essere vittime della violenza collettiva».
Quei segnali allarmanti sarebbero «l'uso dello stereotipo» e «il passaggio dalla responsabilità personale a quella collettiva». Per stare alla questione pedofilia, lo stereotipo starebbe in quelle rappresentazioni, che diventano luoghi comuni, che identificano vita religiosa e pederastia. O che vedono nella prospettiva cattolica solo il moralismo ipocrita di chi, in segreto, è assai peggio degli altri, praticando vizi inconfessabili.
Da qui, il passaggio a generalizzazioni, come se ogni battezzato fosse, in quanto tale, un potenziale maniaco sessuale; così come, per l'antisemitismo, ogni ebreo era tacciato di essere un cittadino infido e una sanguisuga dei popoli. Una denuncia, insomma, della gravità della persecuzione che colpì gli ebrei e, insieme, della possibilità che anche i cristiani diventino perseguitati. È una prospettiva, peraltro, che già si è fatta realtà: se in Occidente qualcuno vorrebbe respingere il cattolico in una riserva, chiudendolo in una sorta di apartheid, in altre parti del mondo non scorre inchiostro ma sangue. Stando anche alle statistiche della insospettabile Amnesty International, da almeno due decenni il cristianesimo è, nel mondo, la religione più perseguitata. Il martirologio dei credenti nel Vangelo giustifica la denuncia di una persecuzione sempre crescente. Non solo ogni anno Ordini e Congregazioni missionarie stilano un elenco impressionante di vittime, ma le Chiese locali stesse piangono i loro defunti, spesso massacrati nei modi più crudeli.
È a questo scenario di vastità mondiale e di lunga durata, non all’attuale cronaca nera a sfondo sessuale, che voleva riferirsi padre Cantalamessa. Per questo non ha avuto torto il portavoce vaticano, padre Lombardi, nel rassicurare il mondo ebraico che non vi era alcuna intenzione di equiparare le campagne antisemite alle campagne contro la pedofilia. Come se si volesse mettere sullo stesso piano la persecuzione degli innocenti ebrei e la giustizia verso dei religiosi colpevoli non solo di un peccato contro i comandamenti di Dio ma anche contro la legge degli uomini. E ha avuto ragione, il padre Lombardi, anche nel rinviare al testo autentico, per constatare come il padre Cantalamessa non solo non avesse proceduto a cinici confronti, ma desiderasse, anzi, dire la sua gratitudine a un israelita amico e solidale.
Se lette in questo modo, le affermazioni «scandalose» del Predicatore Pontificio non sono più tali: anzi, meritano riflessione perché, mentre deprecano un passato di violenza, denunciano un presente e un possibile futuro segnati essi pure dalla violenza. Questo riconosciuto, non ha torto neppure il pacato rabbino del Jewish Committee nel deprecare «un uso sfortunato del linguaggio» da parte dell'autorevole cappuccino. Più che di «sfortuna » parleremmo, lo si diceva, di inopportunità: come ha ricordato il rabbino capo di Roma, il momento per rischiare equivoci su questi temi non è certo il venerdì santo, ricorrenza di una morte in croce a Gerusalemme. Il malinteso di cui è stato vittima il buon francescano padre Raniero ricorda quello che provocò la sollevazione dell'altro monoteismo, l'islamico. La citazione, fatta da Benedetto XVI nella sua Ratisbona, di una frase ingiuriosa verso Maometto scritta da un imperatore bizantino del XIII secolo, fu «lanciata» dalle consuete agenzie come se rispecchiasse il pensiero del Papa. Al contrario: era stata fatta da papa Ratzinger per dissentirne. Altri, troppo numerosi, infortuni mediatici hanno coinvolto in questi anni la Gerarchia. Le cause? Innanzitutto, forse, l'eccesso di parole dette e scritte; poi, la minor qualità della «macchina» ecclesiale chiamata al controllo dei testi; infine, una certa ingenuità degli uomini di Chiesa. Abituati a discorsi complessi e articolati, non mettono in conto la necessità dei media di sintesi, spesso brutali se non deformanti, che facciano titolo. Educati, poi, alla lealtà, confidano in quella del «mondo» dove, invece, non pochi li attendono al varco per danneggiare quella Chiesa che considerano avversaria. Da qui una «modesta proposta per prevenire»: affiancare, cioè, ai severi corsi di aggiornamento biblico e teologico, anche l'incontro con qualche vecchio, scafato cronista che, ai troppo fiduciosi pastori, riveli trappole e agguati del media-system e gli onesti, ma furbi, trucchi per evitarli.
«Il Corriere della Sera» del 4 aprile 2010

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