03 aprile 2010

Ma la vera scienza non ha paura della fede

di Roberto Timossi
La scienza è sicuramente una delle più grandi conquiste dell’intelligenza umana ed è anche una di quelle facoltà proprie della sola specie umana, come la fede religiosa. Chi crede può pertanto a buon diritto considerare il sapere scientifico e la credenza religiosa come due doni di Dio: il primo dono serve a spiegare come funziona il mondo; il secondo dono ad attribuire un senso ultimo al cosmo e alla nostra esistenza. Ma come per tutti i doni che ci capita di ricevere nella nostra vita, occorre conoscerne la natura per riuscire ad assegnare ad essi il giusto valore. Nel caso del dono della scienza, la prima cosa da acquisire è il senso del limite, ossia la consapevolezza che il sapere scientifico non è totalizzante, non è privo di confini. Nella società contemporanea, invece, prevale sovente l’idea che i metodi delle scienze naturali siano gli unici portatori di vera conoscenza; idea da cui logicamente consegue che la scienza sia la sola forma di sapere titolata a dirci come dobbiamo vivere od organizzare la società. C’è insomma, come scrive Massimiano Bucchi in un suo recente saggio (Scientisti e antiscientisti, edito dal Mulino), un movimento espansivo e colonizzatore da parte di alcuni ambienti scientifici delle scienze naturali (come ad esempio la biologia, la genetica e le neuroscienze) verso campi a loro tradizionalmente estranei quali la filosofia, la fede religiosa e perfino la politica. Un movimento che assume addirittura carattere pedagogico-missionario, perché ha la pretesa di convertire alla suo credo scientista tutta la comunità umana, affermando una sorta di 'prerogativa degli esperti', ovvero degli scienziati. Stando attenti a non cadere nella fallacia della generalizzazione indebita (quella, per intenderci, in cui si fa di tutta l’erba un fascio) e quindi a non concludere che tutti gli uomini di scienza hanno propensioni scientiste, non si può tuttavia negare che sia fortemente radicata in molti scienziati la convinzione che il sapere scientifico risulti incompatibile con il pensiero filosofico e la religione, fino al punto di considerare come Richard Dawkins una missione dello scienziato quella di combattere contro le credenze religiose perché considerate non meno perniciose dell’astrologia, dell’esoterismo e della magia. A questo modo, però, la perdita del senso dei limiti della scienza e del ruolo dello scienziato, trasforma in ideologia la posizione di questi ricercatori scientifici, tanto che alla fine lo scientismo e l’atteggiamento di chi rifiuta il sapere scientifico finiscono per assomigliarsi. Che sia davvero così ho potuto rendermene conto personalmente nei dibattiti pubblici sul rapporto tra scienza e fede o sul carattere della conoscenza scientifica a cui sono stato invitato; dibattiti ai quali partecipano ovviamente sia uomini di scienza sia teologi e filosofi. Ancora di recente, nella serata dedicata alla scienza nell’ambito del forum 'Ricerca, innovazione, imprenditorialità' organizzato dall’Università di Padova, ho incontrato un noto farmacologo italiano che ha fatto letteralmente un salto sulla sedia quando mi sono permesso di dire che anche nella scienza sono presenti degli 'atti di fede'. Si possono infatti citare numerosi casi storici in cui un ricercatore scientifico ha scelto un programma di ricerca piuttosto che un altro prevalentemente sulla base di un’interiore convinzione personale. Viene allora da pensare che quegli scienziati che contestano ai credenti di essere prevenuti nei confronti della scienza siano in realtà loro a nutrire dei pregiudizi nei confronti della fede, fino al punto da risultarne intimoriti.
«Avvenire» del 3 aprile 2010

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