03 aprile 2010

Accoglienza alla vita: ecco la questione «non centrale» ...

di Francesco Ognibene
E per fortuna che non era un tema pertinen­te con le elezioni regionali. La ricordiamo bene la battuta spesa poco prima del voto da qualche imprudente candidato che aveva irri­so la decisiva sottolineatura del cardinale Ba­gnasco sull’importanza della questione della vi­ta nella scelta elettorale asserendo che l’aborto non avesse a che fare con le urne. Ce l’aveva ec­come, tant’è vero che da tre giorni i governato­ri – dai neoeletti ai veterani – non parlano che di Ru486. Segno che l’aborto nella sua versione chimica mal si adatta a essere silenziato come faccenda privata e ricacciato nell’angolo buio di un preteso 'diritto individuale' che si risolve col day hospital della pillola ingerita davanti al medico e il feto 'espulso' nel bagno di casa o dell’ufficio. Alla faccia dello sbandierato rispet­to per la salute e la dignità femminile, oltre che della stessa legge sull’interruzione di gravidan­za.
La nuova fiammata nel dibattito sulla discuti­bilissima adozione della pillola abortiva in Ita­lia, nei giorni in cui varcano la frontiera le pri­me scatole del farmaco realizzate per il nostro Paese, ha il merito di chiarire in modo ormai i­nequivoco i termini della questione lasciando inesorabilmente fuori gioco chi sostiene che «l’ospedale non è un carcere» e che la donna deve poter decidere se e quando uscirsene col suo dramma fisico e psicologico in pieno svol­gimento. L’irresponsabilità di queste battute fa il paio con le polemiche di quanti sostengono che gli indispensabili freni regionali all’uso del­la pillola abortiva finirebbero con l’alterare la legge 194. Un cortocircuito concettuale bello e buono: è semmai vero, infatti, che è la pratica dell’aborto extra-ospedale a configurare nei fat­ti la violazione di una norma che legalizza il dramma dell’aborto ma non concede margini a pratiche disinvolte e pericolose. E dunque ab­biano il coraggio i fautori della Ru486 'libera' – in testa i radicali, grandi sponsor dell’intera o­perazione – di andare in Parlamento a esporre al Paese le ragioni per le quali andrebbero al­lentati garanzie e controlli, lasciando a una don­na già sofferente la valutazione su sintomi e pro­blemi dei quali non può avere la conoscenza che ne ha il personale ospedaliero. La stessa ci­tazione della Francia come esempio 'felice' di adozione del prodotto abortivo (ideato e fab­bricato Oltralpe) è un’altra bugia raccontata a chi vuole crederci: il governo francese è infatti alle prese col grave problema di un numero di a­borti che, salito costantemente dopo l’adozio­ne della Ru486, non accenna a diminuire. Sia­mo sicuri di voler rinunciare alle nostre pur tri­sti statistiche che parlano di una lenta e costante riduzione della tragedia rappresentata dagli a­borti volontari? Non è allora il caso di smetter­la di negare la pericolosità fisica, psichica e so­ciale della nuova pillola abortiva per affrontare una buona volta tutti insieme la piaga aperta degli aborti, sempre e comunque troppi?
Forse, però, c’è in talune componenti cultura­li, politiche e mediatiche del Paese l’imbarazzo di non sapere proprio cosa dire del vero diritto che le donne italiane reclamano: quello di po­ter essere madri senza patire insopportabili u­miliazioni professionali e sociali. La vera 'rivo­luzione' per l’Italia non è la nuova, miracolosa pillola con la quale regolare a piacimento le gra­vidanze – come se si trattasse di ascessi da e­stirpare – ma la libertà per le famiglie di poter allargare il numero dei figli senza rischiare la povertà. E visto che le fandonie messe in circo­lazione sono tante, è davvero arrivato il mo­mento di farla finita anche con la storia dell’«aborto chimico meno doloroso di quello chirurgico»: la pillola costringe ad almeno tre giorni di penosa attesa, con effetti collaterali pe­santi da sopportare e l’insostenibile idea di a­ver abortito da sé il proprio figlio. Può bastare come «aborto dolce»?
Ben vengano allora le dichiarazioni dei neogo­vernatori e di chiunque, con loro, riapre il dos­sier Ru486: è alla vita che dobbiamo far spazio nel nostro futuro, non a una gelida chimica del­la morte.
«Avvenire» del 3aprile 2010

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