31 marzo 2010

La cena dei cretini

La Francia rivoluzionaria si macchiò 200 anni fa degli stessi crimini che si è soliti associare al nazismo
di Marco Respinti
Si apprestava il Bicentenaire della rivoluzione di Francia e Jean Dumont – storico scomparso nel 2001 di cui la Francia farebbe bene a menare più vanto – pubblicò un pamphlet urticante, Pourquoi nous ne célèbrerons pas 1789 (ARGÉ, Bagneux 1987). Fu tradotto come I falsi miti della Rivoluzione francese (prefazione di Giovanni Cantoni, Effedieffe, Milano 1990), ma è il titolo originale a essere significativo: perché sarebbe meglio non celebrare l’Ottantanove come l’alba del “mondo nuovo”.
Dumont si permise l’invettiva perché era un vero topo di biblioteca, uno studioso carico di importanti scoperte documentali. E così, dettagliate le proprie affermazioni lungo un’intera carriera, sciorinò in questo opuscolo “di battaglia” le inibizioni derivate alla società occidentale dalla rivoluzione francese e fortificate dalla cultura che ne derivò nei secoli seguenti.
Ovvero: il falso mito della “modernizzazione decisiva” rispetto ai presunti cascami del passato, quello del “popolo al potere” e quello della sua finalmente conquistata “felicità”. Poi mise in luce l’incapacità della cultura postrivoluzionaria di garantire le libertà sociali e le autonomie per colpa di uno statalismo opprimente e di un nazionalismo aggressivo. Infine la falsità egualitaristica e l’invenzione del terrore poliziesco come strumento di governo quotidiano.
Talché le parole proferite nel 1989 dall’arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi – la rivoluzione francese ci ha lasciato solo il sistema metrico decimale – sono di più di una semplice boutade.
Il “secolo lungo”
Ma se l’Ottantanove ha prodotto macerie, la philosophie che lo precedette lungo il “secolo francese”, dichiarandosi lume venuto a rischiarare l’antro tenebroso e fetido della superstizione e del servaggio (per dirla con Edgar Quinet), ha invece consegnato alla posterità retaggi profondi e purtroppo duraturi sull’intera cultura progressista, cioè, quella che per lo più oggi domina. Così che, nonostante la definizione di «secolo breve» di Eric Hobsbawm, il Novecento dei noti abissi appare, in verità come “secolo lungo”, apertosi più di 200 anni fa in Francia.
E tra le molte venature di questo lascito, tra le pieghe del suo razionalismo, nei solchi del suo democraticismo, nelle filière del suo egualitarismo, nei meandri del suo statalismo e tra le ans(i)e del suo laicismo, spunta pure, orrendo e raccapricciante, il razzismo.
Sì, il razzismo: quello che, anche ammesso di voler perdonare tutto ai Lumi e alla rivoluzione, mai si penserebbe di collegare al Settecento francese. Perché cozza con la triade libertè, egalitè, fraternitè; perché contrasta con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino; perché in urto con la sua retorica emancipazionista, liberazionista e universalista.
Ma non è così. Già da qualche anno in Francia lo storico Jean de Viguerie (cfr. il Domenicale 16 ottobre 2004) e oggi in Italia Marco Marsilio con il volume Razzismo, un’origine illuminista (prefazione di Gianni Scipione Rossi, Vallecchi, Firenze 2006) documentano il contrario. Il razzismo fece parte a pieno titolo del pensiero illuminista, non ne contraddice affatto i canoni e anzi fu un perno centrale di quel “pensiero nuovo” che mirò a travolgere duemila anni di riflessione culturale.
Fu infatti la philosophie che, tra sensismo, meccanicismo e materialismo incipienti, ridusse l’essere umano a specie tra le specie, inserendone la vicenda temporale nell’ambito della mera storia naturale e quindi sottoponendolo a classificazioni e tassonomie quasi fosse una pianta o una bestia qualsiasi. A ciò si accompagnò una critica sempre più serrata della narrazione biblica. E così l’idea di una comune origine dell’umanità lasciò presto il posto ad arzigogolate e aberranti teorie eziologiche che hanno finito per ridurre le “specie” umane a miceti spuntati qua e là per caso, belli o brutti, intelligenti o deficienti, così come i funghi sono eduli o velenosi.
Fu questa la vera rivoluzione, quella che incoronò l’uomo-materia detronizzando l’antico essere umano imago Dei. A essa contribuirono un po’ tutti i padri nobili dell’illuminismo, da Voltaire al conte di Buffon, da Jean-Baptiste-Claude Delisle de Sales a Guillaume-Thomas-François Raynal, da Denis Diderot a Baptiste-Henri Grégoire. Il resto fu conseguenza pratica.
La riduzione dell’essere umano alla semplice dimensione materiale e naturalistica venne poi rielaborata “scientificamente” nell’Ottocento, che dotò il razzismo di basi “oggettive” e biologiche. La strada per Auschwitz era aperta.
Evoluzionismo ed eugenetica
Ma non solo. Da quel pensiero discende anche l’“eugenetica democratica”, e su questo si possono leggere con profitto Piero S. Colla, Per la nazione e per la razza. Cittadini ed esclusi nel modello svedese (Carocci, Roma 2005), Luca Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese, 1934-1975 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2004) ed Edwin Black, The War Against the Weak: Eugenics and America’s Campaign to Create a Master Race (Four Walls Eight Windows, New York 2003).
In più, sempre da quel pensiero, derivò l’idea secondo cui si può fare qualsiasi cosa dell’uomo, se ciò serve, sin dal suo stadio embrionale. Per esempio, «rigenerarlo» come l’abbé Grégoire, prete giacobino, prospettava per gli ebrei «degenerati».
L’eugenetica, del resto fu inventata, termine e idea, dallo psicologo Francis Galton, il quale introdusse l’evoluzionismo del proprio cugino Charles Darwin nel biologismo “scientifico” con cui poi auspicò la manipolazione umana (tutto da leggere è Richard Weikart, From Darwin to Hitler: Evolutionary Ethics, Eugenics, and Racism in Germany [Palgrave MacMillan, New York 2004]).
200 anni fa, il Terzo Reich
Ora, gli orrori della Shoà hanno prodotto una valanga di riflessioni, ma la cultura occidentale – come bene scrive Marsilio – per non voler essere mai più razzista ha cercato di non esserlo mai stata, rimettendo ogni responsabilità al solo nazionalsocialismo, folle e improvviso.
Eppure la malapianta aveva radici più profonde. Forte delle teorie eugeniste e malthusiane che gli provenivano dai padri illuministi, la Francia rivoluzionaria si macchiò ben 200 anni fa degli stessi crimini che si è soliti associare al nazismo. Dai massacri del settembre 1792 con cui si eliminarono anche deboli e perversi prefigurando l’Operazione T4 realizzata nel 1939 dal Reich hitleriano, al primo genocidio della storia, quello praticato in Vandea tra il 1793 e il 1794 con tanto di camere a gas ed esecuzioni anzitutto di donne e di bambini, onde estirpare una «race maudite», una razza maledetta, di oppositori.
Insomma solo in virtù della sua memoria corta, certo Occidente può ancora gloriarsi dell’illuminismo.
«Il Domenicale» dell'ultima settimana del marzo 2006

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