03 marzo 2010

Gli appelli generici non bastano più

Battaglia culturale per la vita
di Paola Ricci Sindoni
La presentazione del Rapporto sull’a­borto in Europa, elaborato dall’Istitu­to per le politiche familiari e presentato ieri a Bruxelles, piuttosto che assomiglia­re a un rigoroso resoconto statistico sulla popolazione continentale sembra un bol­lettino di guerra, l’impietosa fotografia di un massacro silenzioso. Alcuni dati per ca­pire: in Europa nel 2008 si è consumata la morte di 2,9 milioni di bambini non nati, uno ogni 11 secondi, 327 ogni ora, 7.468 al giorno. Negli ultimi 15 anni solo nell’Eu­ropa comunitaria la cifra è di 20 milioni di bambini che non hanno visto la luce, e l’I­talia, insieme alla Gran Bretagna, la Fran­cia e la Romania fa parte del gruppo di te­sta di questa impressionante carneficina. L’aborto ha così ormai perso l’immagine di una pratica eccezionale e dolorosa, compiuta per motivi gravi di salute della madre o del piccolo, per diventare in po­chi decenni un metodo di controllo delle nascite, entrando nel costume sociale e nel sentire comune come una pratica 'normale' che ha progressivamente con­dotto la coscienza collettiva a non consi­derarlo un 'reato' contro la vita, quanto piuttosto come un 'diritto' da parte della donna di autogestire la propria sessualità. La successiva mistificante evoluzione lin­guistica, avviata nella Conferenza del Cai­ro su Popolazione e sviluppo, nel settem­bre 1994, che ha declinato l’aborto con il concetto di 'diritto alla salute riprodutti­va', ha spalancato le porte alle legislazio­ni nazionali e internazionali, convinte or­mai con l’ultima arrivata – la Spagna – che in pieno clima interculturale si debba fa­vorire la convivenza di un sano plurali­smo etico. Non si avverte però l’abissale differenza che separa la semplice accetta­zione di idee e di comportamenti diversi con l’ammissione devastante che com­promette il diritto di esistere di altre per­sone. Non si tratta infatti di manifestare opinioni culturali, prive di incidenze so­ciali, o di scelte etiche che coinvolgono la singolarità della coscienza personale, ma di opzioni che coinvolgono altri, come bambini non fatti nascere e che invece cir­costanze favorevoli avevano condotto al­le soglie dell’esistenza. Certo è che gli appelli generici non basta­no più. Va al contrario avviata una rivolu­zione culturale che trovi un necessario supporto con decise politiche di garanzia e di sostegno per il figlio e la madre. Lo ha capito bene l’Istituto estensore del Rap­porto che alla fine della sua analisi sul de­solante sviluppo zero della demografia eu­ropea indica alcune interessanti proposte, come quella di promuovere il diritto alla vita tramite la richiesta alla politica di con­dizioni sociali favorevoli, volte a suppor­tare gli aiuti alla gravidanza intesa come bene sociale. Interessante anche l’idea di monitorare la curva demografica all’in­terno dei singoli Paesi della Ue al fine di so­stenere politiche comunitarie che risve­glino la cultura dell’accoglienza e favori­scano la percezione sociale che la vita, pri­ma ancora della libertà, è un diritto ina­lienabile che non può essere soffocato. Ol­tre che potenziare centri di aiuto e di a­scolto, si reclamano anche politiche fi­nanziarie che, ad esempio riducano le spe­se dei prodotti per la prima infanzia, e che sostengano – tramite bonus – la prepara­zione nei nove mesi dell’attesa di quei sup­porti necessari per l’arrivo del bambino.
Piccoli segni, si dirà, ma indispensabili perché alla cultura dell’individualismo au­tocentrato e chiuso al futuro possa sosti­tuirsi uno sguardo più aperto al domani, che vogliamo sia ospitale e promettente per quanti – si spera tanti – verranno do­po di noi.
«Avvenire» del 3 marzo 2010

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