04 febbraio 2010

Le prime pietre scagliate a Morgan

di Davide Rondoni
Morgan dice che la droga funziona bene come antidepressivo. E così si gioca Sanremo. Pamela Prati dice che non va all'Isola dei famosi perché ha il male oscuro e terrore degli spazi aperti. La faccenda e le polemiche che ha aperto sono doppiamente bastarde. Primo perché ci fa sorgere la domanda: siamo un popolo di depressi rappresentati da divi e semidivi depressi? O forse gli italiani si sono depressi a furia di voler somigliare ai divi che gli vengono proposti di continuo?
Insomma, la prima bastardata di questa vicenda è che la depressione invece d'esser trattata con delicatezza e attenzione viene sparata in mezzo a paccottiglia tipo lustrini di Sanremo e di isole di chissà chi. La depressione è una faccenda sera. È un male che quando è reale rischia di far perdere alla gente lavoro e affetti, mica una comparsata tv.
Il secondo motivo di bastardata della faccenda è che la droga, come ben sapeva Baudelaire, è ciò che ammala la libertà, e dunque, è il contrario della "cura" della depressione. È un analgesico, non una soluzione.
Almeno il mio amico Morgan è stato sincero. Ha detto quel che pensa. Anche se è una cavolata. Io le conosco queste figure di successo. Ce ne sono di tutti i tipi. Depressi o euforici cronici. Spesso alcuni cercano nel successo un antidoto alla loro tendenza al vuoto. Ma il successo non sa di niente, come dice un personaggio di un film. Il fatto è che né il successo, né la droga curano dalla depressione. Se è una depressione vera. Non curano e non regalano nessuna vera gioia.
Si parlasse di questo, finalmente. E qui s'innesta una terza questione. Che riguarda la parola depressione. Una delle parole più fortunate degli ultimi due secoli. Usata a proposito di molte cose diverse. Di troppe cose diverse. Ingenerando confusione, e irresponsabilità. Ormai con quella parola si indica lo scoramento per una situazione che non va bene, così come lo stato di prostrazione di una mente dominata da fantasmi.
Così facendo, è come se ogni grado della nostra tristezza si colorasse di un che di malaticcio. Da curare, dunque. Con psicofarmaci o droghe, con qualsiasi cosa muti la tristezza in euforia. O in quiete innaturale. Ma la tristezza, la fatica di vivere non è una malattia. È una condizione esistenziale. La debolezza nell'affrontare le cose e le situazioni non sono, il più delle volte, causate da una malattia. Ma da un'altra cosa che si tende invece a eliminare: l'errore. Ci sono errori, che compiamo nei rapporti, nelle situazioni di lavoro, o nella vita in generale che possono portarci in una specie di vicolo cieco della libertà, in una palude della volontà.
Non si tratta sempre di un grado minimo o massimo di malattia. Tutto questo parlare di depressione serve benissimo a parlare del vero ospite che non vogliamo guardare negli occhi: l'errore, il nostro errore. Imputandolo a una specie di malattia dai confini incerti, ci "droghiamo", ci togliamo per un po' il dolore. Ed evitiamo di guardare il reale.
La parola depressione è essa stessa ormai una droga che usiamo per evadere da noi stessi e dalla fatica della libertà. Servisse a parlare di nuovo di libertà, questa polemica futile. Sarebbe un segno che ci sono ancora uomini liberi in questo paese. Che non si affidano né al successo né alla droga. E che non hanno paura di guardare in faccia i propri o gli altrui errori. Sarebbe segno che c'è in questo paese una pasta d'uomini che non oscilla tra depressione ed euforia, tra luci della ribalta effimera e buio della depressione. Uomini che conoscono il dolore e la gioia. Che sono ben altro dalle loro troppo usate maschere di successo e cosiddetta depressione.
Aver eletto il divo, l'uomo di successo, a modello ci sta impoverendo. Non solo nel gusto, ma anche nel modo con cui pensiamo alla gioia e alla tristezza. Il divo infatti, non sbaglia mai; se gli va male, al massimo "s'ammala". E una cura vale l'altra.
«Il Sole 24 Ore» del 4 febbraio 2010

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