04 febbraio 2010

Hacker contro cracker, c’è dell’etica nel web?

Secondo un manifesto diffuso in Rete, i pirati informatici hanno pure loro precise norme di comportamento
di Andrea Vaccaro
Ah, maledette maldicenze! Pas­si l’infanzia a vedere i film di John Wayne e ad essere visita­to, nel sonno, da incubi pellerossa che ti assediano la casa per tagliarti lo scal­po, e poi scopri, sui libri di storia, che c’è quasi da vergognarsi di aver par­teggiato per i «visi pallidi». Trascorri il tuo tempo su internet con il costante timore che dietro qualche sito o e-mail stiano appollaiati come avvoltoi schie­re di hacker con il solo intento di in­fettare il tuo computer con perfidi vi­rus, e poi t’imbatti nel Jargon File, il manifesto della cultura hacker, ed è una primavera di principi e valori che instillano simpatia. Il Jargon File, o fi­le di gergo, è la carta d’identità del­l’hacker perfetto, il provetto conosci­tore di programmi informatici, con i suoi segni particolari, lo stile, i gusti, il dizionario. È un docu­mento immesso nel suo luogo natu­rale – il web – da Raphael Finkel a metà anni Settanta e da allora ritoccato, ar­ricchito, affinato innumerevoli volte dalla comunità hacker. Sì, perché il primo imperativo di tale cultura è la condivisione, il fare insieme, il mette­re a disposizione degli altri, gratuita­mente, i frutti del proprio talento e del proprio tempo. Una specie di «cultu­ra del dono » o, ancora, freelosophy
( Kevin Kelly). Da questo humus na­scono, ad esempio, le idee dell’open
source e del software libero, program­mi messi in rete senza compenso, che ognuno può copiare, «in modo da aiu­tare il prossimo», o migliorare e ridi­stribuire, «affinché tutta la comunità possa trarne beneficio» (Richard Stal­lman).
Secondo il loro au­toritratto, gli hacker sono persone con un «vocabolario at­tivo », accuratamen­te attenti alle parole e con una leggera tendenza all’irrive­renza. Amano leg­gere nelle ore che le altre persone, mediamente, trascor­rono dinanzi alla tv. Hanno pochissi­ma tolleranza per i vestiti-business e per le donne con il trucco pesante. Caldeggiano la diffusione delle infor­mazioni – perché nessuno dovrebbe risolvere lo stesso problema per la se­conda volta – e sviluppano un’ostilità istintiva verso la segretezza e l’ingan­no mediatico. L’eccessivo tempo tra­scorso in modo solitario (che li fa pas­sare per geek , disadattati) non è stret­tamente necessario, ma aiuta a riflettere e a marcare una di­stanza dalle norma­li aspettative sociali. Di fondo, poi, essi di­chiarano che si può essere hacker anche senza computer, ba­sta avere passione ed entusiasmo per ciò che si fa ( « la noia non è solo sgradevole: è un vero e proprio male»), senza essere fiacca­ti da distrazioni quali successo e da­naro. Anzi, chi agisce principalmente per questi fini è pressoché un immo­rale e merita di essere bollato con il segno di Mammona, per chiamarlo così: la $ del dollaro che pulsa, esem­plarmente, nel cuore della Micro$oft (chi, del resto, non conosce un pro­fe$$ ionista, un $acerdote, un arti$ta). Se, però, gli hacker appaiono così pu­ri, chi sono gli autori degli atti di pira­teria informatica, dei furti di codici, dei virus digitali? Per lo Jargon, questo è un lavoro per i disprezzati cracker,
dove un cracker sta ad un hacker co­me il manigoldo che ruba un auto cor­tocircuitando i cavi di accensione sta all’ingegnere elettronico che quel mo­tore ha progettato. Gli hacker costrui­scono le cose; i cracker le rompono. « Ci sono inimmaginabili modi inte­ressanti per utilizzare il proprio com­puter, piuttosto che usarlo per irrom­pere nei computer altrui». Come mi­nimo, è un peccato di scarsa creati­vità.
L’etica hacker non sarà proprio «una sfida spirituale di portata generale ai nostri tempi» (Pekka Himanem), ma qualche sua sollecitazione è indub­biamente da accogliere con favore.
«Avvenire» del 4 febbraio 2010

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