28 febbraio 2010

Dalla toga agli abiti per la cena, l'insolito guardaroba dei Romani

Vanitas
di Eva Cantarella
La «vestis cenatoria» era leggera, di seta o di cotone, in genere bianca. Ma c' era chi la sceglieva verde o lilla. Senza scarpe: prima di entrare nella sala da pranzo si toglievano le scarpe, che venivano prese in consegna da uno schiavo
A conoscerli bene, quante sorprese ci riservano i romani. Austeri, rigorosi, moralisti... Così ce li presentano i libri di scuola, così siamo abituali a pensarli. Eppure, a volte... Prendiamo, ad esempio, il loro modo di vestire: la toga, abito serissimo, molto elegante nella sua solennità. Naturalmente, non passavano la giornata «togati». Per stare più comodi, quando andavano a cena erano soliti indossare un abito più leggero, di seta o di cotone, in genere bianco, ma anche verde o lilla, detto vestis cenatoria (o syntesis, alla greca). A questo si deve aggiungere che, sempre per ragioni di comodità, prima di entrare nella sala da pranzo e sdraiarsi sui letti tricliniari (dai greci avevano imparato anche a cenare comodamente sdraiati) si toglievano le scarpe, che uno schiavo restituiva loro al momento del commiato. Sin qui niente di sorprendente: anche le persone austere possono amare le comodità. Meno scontato, invece, quel che scopriamo se torniamo all'abbigliamento serale. Un caso giudiziario, cui diede vita il testamento di un senatore, ci fa sapere che alcuni, a cena, anziché indossare la vestis cenatoria, si concedevano un abbigliamento per noi inconsueto. Il caso nacque perché il senatore stabilì, per testamento, che le vesti muliebri di sua proprietà andassero a una certa persona. Posto che il senatore era solito cenare vestito da donna, come individuare di quali vesti si trattava? Il senatore alludeva, forse, a quelle con cui usava cenare? Il caso, riportato nel Digesto di Giustiniano, venne a lungo discusso, senza che alcuno dei giuristi interpellati mostrasse la minima sorpresa di fronte al caso. Il cross dressing non turbava minimamente gli austeri, severissimi romani.
«Corriere della Sera» del 27 febbraio 2010

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