02 febbraio 2010

Aborto o non aborto? Questo il televoto

Bump+: il nuovo reality stuzzica-coscienze
di Valentina Fizzotti
Il pubblico decide se le partecipanti debbano tenersi o no un bambino che non vogliono
“Nel 1973, la Corte suprema americana ha dato alle donne una possibilità di scelta. Trentasette anni dopo, noi stiamo dando loro una voce”. La possibilità è quella di abortire, garantita dalla sentenza Roe vs Wade, la voce è quella di uno show fra la fiction, il reality e il gioco, in cui il pubblico decide se le partecipanti debbano tenersi o no un bambino che non vogliono. Bump+ va in onda dal 22 gennaio sul suo sito Internet (www.bumptheshow.com) e su YouTube, ma la sua logica perversa altro non è che una versione interattiva dei format del Grande Fratello e di Uomini e Donne di Maria De Filippi, un’arena moderna dove si attende il pollice verso del pubblico.
Fra 300 candidate la produzione ha selezionato tre concorrenti, che fingeranno di essere rimaste incinta e di non essere sicure di voler portare avanti la gravidanza. I commenti inviati dagli spettatori muteranno il canovaccio della fiction puntata dopo puntata, lungo le 4 settimane di non-gravidanza delle concorrenti. Che saranno guardate e consigliate mentre fingono di essere dibattute e interpretano la parte che sarà scritta per loro dagli internauti. E con buona pace dei frame di Goffman saltelleranno fra la trama verosimile il loro ruolo di giocatrici a caccia di fama.
Denise è una magrolina fastidiosamente dipendente dalle caramelle e porta il dolcevita per nascondere i segni delle botte del fidanzato, con cui vive in una roulotte. “Complicanze con le gravidanze precedenti?”, le chiede il dottore, “Sì, si chiamano Jake e Mindy”, risponde. Lei quei bambini però li ama, dice, ed è per loro che partecipa e sopporta un compagno violento. E’ lei a far tremare le certezze del personaggio-medico, il dottor Patterson, disegnato per consigliare le ragazze ma incapace di qualsiasi giudizio, che a sentir parlare di violenze finge di non stare più al gioco.
Questo è un reality, e quindi anche qui c’è una biondina scema, Hailey, che va al college e alla tv guarda unicamente trasmissioni divertenti perché si commuove spesso, “soprattutto davanti alle pubblicità natalizie”. La accompagna un fidanzato con velleità artistiche (“I miei dicono che sarebbe ora che mi trovassi un lavoro vero, ma, hey, Michelangelo aveva un lavoro vero”). Il sodalizio fra i due punta vistosamente a trarre il massimo dalla partecipazione al gioco: “Temo di non farcela”, dicono, e non si capisce bene se stiano parlando dello show o del diventare genitori. “Tecnicamente ho avuto altre tre gravidanze – spiega lei al dottore –, sa, rimango incinta molto facilmente”. Quando persino al poco credibile dottore è chiaro che il personaggio-Hailey ha già deciso quale sarà la sua scelta (mentre lo scopo del gioco è “cercare una soluzione”), il fidanzato corre in aiuto spiegando che la coppia è “aperta a ogni possibilità”.
E poi c’è Denise, mogliettina di un militare che sta in Iraq da più di sei mesi cui non sa proprio come spiegare la gravidanza di qualche settimana. Nella seconda puntata – andata in onda ieri, in cui le tre si incontrano a un tristissimo party in stile Alcolisti anonimi – Hailey allontana l’imbarazzante fidanzato e le stringe la mano in segno di solidarietà. “Vattene dallo show – le dice la spietata giocatrice -, e tuo marito non saprà mai nulla”.
L’idea di Bump+ è nata dall’intervento di Obama del 2008 all’Università di Notre Dame, e dalla sua chiamata al dialogo sul tema dell’aborto. Ne abbiamo abbastanza del politicume, dicono gli autori, questo show “riuscirà dove hanno fallito quattro decenni di retorica e politica”. Obama ha chiesto dialogo e dialogo sia: sul sito gli spettatori posteranno le loro storie e le loro raccomandazioni alle concorrenti. Ma soprattutto i loro giudizi: “La scelta dipende da te”, recita il claim. In realtà i commenti più forti sono stati già rimossi perché, come si raccomandano gli autori, per far funzionare la sezione “Conversazione” della pagina Web è necessario che il tutto sia “educato” e soprattutto “reale”. Altrimenti addio al giochino stuzzica-coscienze.
«Il Foglio» del 1 febbraio 2010

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