20 gennaio 2010

Loi, 80 anni tra poesia e dialetto

di Roberto Mussapi
Nato a Genova, vissuto sin dall’infanzia a Milano, Franco Loi, uno dei maggiori poeti italiani, compie ottant’anni. Inizio con questo secco dato biografico perché «nomen est omen», nel nome c’è un destino, specie nei nomi di città. Se Loi è il poeta di Milano intesa come metropoli polifonica e dissonante, la nascita genovese lascia una traccia incancellabile, a prescindere dalle intenzioni dell’autore. Genova è la città dei poeti visionari, massimo Dino Campana che in quel porto mercantile e mediterraneo trovò il paesaggio ideale della sua poesia, e poi il Caproni, mai ispirato come sotto la funicolare della capitale ligure, Genova metafisica anche in negativo, ma mai piegabile a un appiattimento naturalistico: Valéry, Frénaud, Montale. La sua autobiografia, «Da bambino il cielo», a cura di Mario Raimondi (Garzanti), è presentato oggi a Milano, al Teatro Franco Parenti, da Franco Brevini e Ranieri Polese. Franco Loi, il grande poeta dialettale, è grande perché in realtà non è letteralmente dialettale: il suo milanese è una lingua creata dall’immaginazione sul milanese storico, una lingua che sa 'trovare' naturalmente termini per natura preclusi all’ambito lessicale concluso, limitato dei dialetti. Loi è un poeta nato in una città portuale, un’ex grande repubblica marinara, e approdato, felicemente e per sempre, in una grande città popolosa, una Milano mitica nel bene e nel male, come quella di Visconti in Rocco e suoi fratelli: niente di idilliaco, paesaggistico, nostalgico in lui, niente del repertorio passatista, antimoderno di tanta poesia dialettale novecentesca. Loi è un poeta di porto e di metropoli, un poeta dell’avventura. In primis nella lingua, che ha costruito come un compositore settecentesco, creando nuove voci e suoni da antichi strumenti, ispirato dal demone polifonico, e, analogamente (tra lingua e materia non può esistere differenza formale nella poesia che conta) nella storia che incessantemente narrano i suoi versi. È un fabbro, fonde materiale diverso in una base incandescente, il ferro della lingua milanese, ma portandola oltre i suoi limiti di lingua, accettati e canonizzati anche dai maestri Maggi e Carlo Porta: Loi è un poeta dell’avventura, e, linguisticamente, un poundiano: non a caso le sue storie sono perennemente al limite del delirio. Limite mai oltrepassato, poiché il narratore in versi è per vocazione ispirato, ma anche saldo. Nella sua opera sono molti i libri destinati a durare, ma il più emblematico e originale è forse «L’angel», poema romanzesco imperniato sulla figura di un uomo che crede di essere un angelo, una visitazione portentosa del rapporto tra l’uomo e l’anima in una Milano che nei decenni si trasforma come un grande teatro, e che vibra nel cielo di tensioni wendersiane, come affonda nei momenti di crisi e accidia in un Limbo simile alla Londra 'irreale' di Eliot. Ma domina il continuo inseguimento di una natura fraterna e alata, nel poema come in tutta l’opera di Loi: e qui, avendo iniziato con un riferimento cinematografico, impossibile non pensare a «Miracolo a Milano». Franco Loi ha tradotto in poesia la lezione dei grandi maestri del neorealismo (cinematografico, è ovvio), il massimo che il nostro cinema abbia mai espresso, quel segreto di De Sica e Rossellini dove la storia ed la lotta per la vita concreta e quotidiana sono naturalmente nutrite da un soffio di natura ultraterrena.


«Avvenire» del 20 gennaio 2010

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