20 gennaio 2010

Hillesum & Weil, un fuoco sacro

Giovani donne ebree nell’Europa del nazismo. Entrambe morte nel ’43. Entrambe assetate di «soprannaturale» e impegnate in un incadescente confronto con il problema del male
di Beatrice Iacopini e Sabina Moser
Un’idea condivisa: il dolore come «radice della conoscenza», che deve trovare il giusto spazio nell’animo
Capita, talvolta, di rimanere colpiti da eventi e coinci­denze che stentiamo a clas­sificare come «casuali», per il cari­co di significato di cui sono porta­tori e il ripensamento che sono ca­paci di provocare in noi. È questa la sensazione che abbiamo avver­tito considerando la quasi perfet­ta contemporaneità tra le vite sin­golari di Etty Hillesum e Simone Weil, la coincidenza del loro esse­re giovani donne ebree nell’Euro­pa del nazismo e della II Guerra Mondiale, la scelta di non sottrar­si al destino dei tanti che – a diver­so titolo – soffrivano ingiustamen­te e, soprattutto, la sorprendente vicinanza del loro pensiero, che risal­ta ancor più se pen­siamo a quanto le due erano, invece, differenti e distanti per profilo psicolo­gico e formazione.
In particolare, il 1943 fu per en­trambe – a solo un mese di distanza – l’anno di appuntamento con la morte che nessuna delle due, no­nostante la giovane età, voleva mancare, ritenendolo l’esito e il compimento di una vita e non, ba­nalmente, la sua cessazione. Vi ar­rivarono preparatissme, in virtù di ciò che forse le accomuna più di tutto il resto: l’esperienza spiritua­le, testimoniata sia dalla vita, sia dalla «conoscenza soprannatura­le » che traspare dai loro scritti. In effetti, oltre ai numerosi punti di convergenza che troviamo nelle pagine di ambedue, stupisce la saggezza profonda che le percorre, soprattutto se consideriamo l’età giovanissima delle nostre pensa­trici.
Così, se Etty ci ricorda che « quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima», Simone, altrettanto, ci insegna a non eliminare o fuggire la soffe­renza, ma a usarla, piuttosto, in modo soprannaturale. E non è cer­to secondario il fatto che queste parole provengano da chi si è im­pegnato a viverle in prima perso­na nel cuore della sventura – la Hil­lesum a Westerbork, la Weil in fab­brica.
L’opera di smascheramento del­l’immaginazione e della fantasti­cheria come espedienti alienanti che l’io usa per proiettare se stes­so sul mondo, stravolgendone il ve­ro volto e fuggendolo, è un ele­mento educativo molto importan­te in questo nostro tempo in cui, invece, ad esse si attribuisce un ruolo centrale ( si pensi all’inva­denza del mezzo televisivo); lo stes­so si dica per il co­raggio di guardare in faccia e accoglie­re come naturale la sofferenza, in tem­pi in cui la felicità sembra dover coin­cidere con la spen­sieratezza e l’as­senza di ostacoli, con la fragilità psicologica che ne deriva.
È, invece, idea condivisa da en­trambe le autrici che il dolore, la sofferenza, siano «radice della co­noscenza » e debbano trovare il giu­sto spazio nell’animo, senza che siano mescolati ad altri elementi, come la paura, la rabbia, il ranco­re, che li rendono – quelli sì – dav­vero negativi: tutte e due racco­mandano di non cedere alla tenta­zione di lasciarsi degradare dall’o­dio, perché solo in tal modo ci ren­diamo ad esso vulnerabili, dal mo­mento che l’umiliazione di chi è vittima è resa possibile dal suo con­senso a farsi umiliare. Così, l’at­teggiamento comune di accetta­zione di tutto il reale, lungi dall’es­ser manifestazione di una debo­lezza e passività interiore è, inve­ce, il miglior modo di resistere al male, l’unico per debellarlo senza opporvi la forza e la violenza di cui esso stesso si alimenta – il che equivarrebbe a ri-crearlo.
Esiste, infatti, una specie di mec­canismo interiore secondo il qua­le, quanto più siamo condannati a una totale passività dalle circo­stanze esterne, tanto più siamo co­stretti a mobilizzare le nostre for­ze interiori. È il concetto dell’atti­vità passiva, di cui parlano ambe­due, che viene pensato dalla Weil come il raggiungimento dello sta­to di innocenza-purezza al contat­to del quale ciò che è male si dis­solve, e dalla Hillesum come un fa­re che consiste nell’ essere.
Proprio questo lavoro su se stessi è ciò che sia la Hillesum, sia la Weil propongono come unica soluzio­ne al male, giacché esso porta al­l’acquisizione di uno sguardo nuovo con cui leggere ciò che ci circonda e rapportarsi al mondo.
È lo sguardo di chi non vuole im­porre che tutto si svolga secondo i propri desideri e la propria vo­lontà – ormai resa passiva – e che, proprio per questo, sa cogliere nel­la trama pur contraddittoria della vita quell’armonia profonda che costituisce la sua bellezza miste­riosa e la sua bontà sostanziale: in virtù di questo nuovo modo di ve­dere le cose, il « cieco meccani­smo », per dirla con Simone, i «mol­ti misteri del mondo», secondo l’e­spressione di Etty, non sono forza­ti in un sistema razionale, ma com­presi – nel senso di «presi con sé» –, accettati con umiltà.
Indubbiamente, il tono della let­tura weiliana è senz’altro più tra­gico e meno pacificato di quello della Hillesum – indice, questo, che la comune esperienza spirituale e l’altrettanto comune conoscenza sovrannaturale che ne è derivata portano, comunque, il segno per­sonale di chi l’ha vissuta. Ci si ac­corge che c’è più scioltezza, più im­mediatezza, più accettazione nei confronti della componente istin­tiva dell’uomo nella Hillesum e, vi­ceversa, più spigolosità, maggiore complessità di pensiero e una dif- ficoltà più marcata a rapportarsi con l’aspetto fisico-materiale di sé e del mondo nella Weil.
Le pagine che ci hanno lasciato te­stimoniano anche, del resto, una vocazione diversa a partire dall’u­so del linguaggio: poetico-lettera­rio quello di Etty, filosofico-specu­lativo quello di Simone.
In ogni caso, i testi delle due autri­ci sono lì a dimostrare la modifi­cazione profonda che l’esperienza mistica ha operato in loro, un’e­sperienza che non ha assoluta­mente nulla a che fare con la sfera sentimentale- emotiva e che non coinvolge affatto l’immaginario (visioni, fenomeni straordinari...), ma tocca quella profondità del­l’uomo che è divina, dalla quale soltanto egli può attingere il vero sapere che, proprio perché tale, si trasforma in vita.
Forse – e questo le rende così gran­di e attuali – la Hillesum e la Weil hanno incarnato quel «nuovo tipo di santità» che consiste nel «met­tere a nudo una larga porzione di verità e di bellezza sino ad ora na­scosta sotto uno strato di polvere». Esso si manifesta nel radicamento profondo a questa vita e a questa terra, nella gioia di chi ha trovato la sua propria patria, che nessun uomo o circostanza avversa potrà togliergli, perché essa risiede nel profondo di sé, laddove abita Dio, l’armonia e il senso di tutto.
«Avvenire» del 20 gennaio 2010

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