10 dicembre 2009

Trovata una nuova prova dell’esistenza di Dio

Il filosofo Spaemann, consigliere del Papa, lancia un’ipotesi interessante
s. i. a.
“Una dimostrazione di Dio che sia, per così dire, Nietzsche-resistente, una dimostrazione di Dio a partire dalla grammatica, più esattamente dal cosiddetto ‘futurum exactum’ (il futuro anteriore)”. E’ con questa interessante provocazione intellettuale che il filosofo tedesco Robert Spaemann interverrà giovedì al convegno “Dio oggi”, organizzato a Roma dalla Cei. “Una nuova prova dell’esistenza di Dio” da parte di uno dei massimi critici cattolici della modernità, rubricato fra i “consiglieri del Papa” Benedetto XVI, con il quale Spaemann ha studiato. Nato a Berlino nel 1927 e capostipite di una generazione di pensatori tedeschi sopravvissuta al nazionalsocialismo, autore di importanti saggi come “Persone” e “Natura e ragione”, Spaemann è anche noto come “l’Emmanuel Lévinas cattolico”. A lui si devono alcune fra le più radicali sentenze del pensiero contemporaneo, a cominciare dalla celebre tesi secondo cui “non c’è etica senza metafisica”.
Erede della prestigiosa cattedra che fu di Hans Georg Gadamer, professore emerito a Monaco e visiting professor in numerose università del mondo, Robert Spaemann nella sua conferenza sosterrà che dire di qualcosa che “è”, ed è “adesso”, equivale a dire nel futuro che quella cosa “è stata”. “In questo senso ogni verità è eterna”, afferma Spaemann. “Poiché non possiamo pensare ad alcun presente senza un relativo futurum exactum, ci possiamo pensare presenti e reali solo se pensiamo a Dio. Se noi oggi siamo qui, noi domani saremo stati qui. Se la realtà esiste, allora il futuro anteriore è inevitabile e con esso il postulato del Dio reale”.
L’affascinante tesi di Robert Spaemann fa il paio con quanto Joseph Ratzinger affermò per la prima volta, da filosofo oltre che da teologo, nel discorso a Subiaco del 1° aprile 2005, nella sua ultima conferenza pubblica prima d’essere eletto Papa. Ovvero l’idea di vivere “come se Dio ci fosse”, si creda o no nella rivelazione. L’ipotesi di Spaemann non è estranea neppure ad altri pensatori del nostro tempo. Se per il grande antropologo francese Claude Levi-Strauss il fatto che l’uomo parli più lingue era il “mystère suprême”, il critico inglese George Steiner è arrivato molto vicino agli esiti metafisici di Spaemann quando ha scritto che la traduzione è un postulato metafisico e che “chiusa la porta del futuro, ogni conoscenza è inerte”. Perché secondo Steiner “è solo con il linguaggio che l’uomo può affrancarsi dal tempo e dalla morte”.
Il punto di partenza dell’analisi di Spaemann, che nella sua relazione attacca duramente anche lo scientismo e il naturalismo contemporanei, è l’idea che “la traccia di Dio nel mondo da cui oggi dobbiamo prendere le mosse, è l’uomo, siamo noi stessi”. La personalità dell’uomo sta e coincide con “la sua capacità di verità”. E’ questo che viene oggi posto in questione da biologi, teorici dell’evoluzione e delle neuroscienze. Il massimo ideologo del nichilismo moderno, Friedrich Nietzsche, diceva che non possiamo liberarci di Dio “finché continuiamo a credere alla grammatica”. “Il problema è che non possiamo fare a meno di credere alla grammatica”, replica Spaemann. Col venir meno del pensiero della verità viene meno anche il pensiero della realtà. “Il nostro dire e pensare ciò che è, è strutturato in forma inevitabilmente temporale”. L’inevitabilità del futuro anteriore implica quindi l’inevitabilità di pensare un “luogo”, come lo chiama Spaemann, “dove tutto ciò che accade è custodito per sempre”. Altrimenti dovremmo accettare l’assurdo pensiero che ciò che ora è, un giorno non sarà più stato. “E di conseguenza non è reale neppure adesso”.
Qualsiasi cosa ne possa nascere in futuro, quel che è accaduto un tempo è, e resterà sempre, vero. “Nessuna parola pronunciata un giorno sarà un giorno non pronunciata, nessun dolore non sofferto, nessuna gioia non vissuta. Il passato può diradare, ma non si può fare in modo che non sia stato”, dice Spaemann. “Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama ‘Dio’ è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere”, aveva scritto Spaemann in un suo celebre libro. “Questo essere non fa parte di ciò che esiste nel mondo. Dovrebbe essere piuttosto la causa e l’origine dell’universo”. Nietzsche aveva ragione a scrivere che per liberarsi di Dio ci saremmo dovuti liberare della grammatica. Ma anche lui non poté fare a meno di conformare i suoi pensieri alla grammatica. Spaemann ricorda la storiella della scritta sul muro: “Dio è morto. Firmato: Nietzsche”, sotto la quale qualcuno ha scritto: “Nietzsche è morto. Firmato: Dio”.
«Il Foglio» del 10 dicembre 2009

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