09 dicembre 2009

Il bene difficile

di Massimo Gramellini
Il racconto del male fa male, dice il Papa. Non risveglia le coscienze, ma le intossica, rendendo gli uomini più depressi e più cinici. Difficile dargli torto, difficilissimo fare altrimenti. Eppure bisognerebbe provarci: tutti insieme, giornalisti e lettori. Cominciando col chiedersi: perché? Perché la notizia che cento agenti di Wall Street hanno fatto la coda per fornire midollo spinale a un loro acerrimo concorrente malato di leucemia vale meno dell’ipotetico omicidio del collega medesimo? Semplice, rispondono i libri sacri del giornalismo: perché le notizie sono eventi straordinari, il famoso uomo che morde il cane.
Già, ma oggi non è forse più straordinario un gesto di solidarietà? Il cronista è come il medico, insistono i testi sacri: vai da lui per farti dire che cosa non va. Già, ma oggi uno non va dal medico anche per farsi prescrivere delle cure preventive, dei vaccini, dei ricostituenti?
I potenti, e qui non alludo certo al Papa, vorrebbero che i media si occupassero soltanto di cose positive, lasciandoli peccare in santa pace. I lettori e i telespettatori anche, a parole. Perché poi, appena vai a leggere la lista delle trasmissioni più viste in tv e delle notizie più cliccate sul Web, ai primi posti trovi sempre violenza e fesserie, fesserie e violenza. Una cosa è sicura: per certi versi la realtà è migliore di quella descritta dai media e per certi altri peggiore. Ci sono meno assassini nelle città che in un telegiornale, però esistono vaste zone d’ombra, specie nel mondo degli affari, che mai vengono illuminate dalla torcia dell’informazione.
La mia sensazione è che non siamo capaci di raccontare né il bene né il male e che la maggioranza del pubblico a sua volta si è talmente intossicato, come dice Ratzinger, che non è più neanche in grado di desiderare e apprezzare la buona informazione. Manca il senso della misura. Il racconto del bene si trasforma quasi sempre in melassa buonista, in santino moralista. E il troppo miele provoca nausea. A sua volta il racconto del male privilegia la superficialità ansiogena, la curiosità morbosa e l’effetto splatter, senza affondare i denti nelle cause profonde dei problemi.
Anche il pubblico soffre dello stesso virus mediatico dei giornalisti: non ha pazienza, scappa da un canale all’altro e da un articolo all’altro, in cerca di emozioni più forti che riescano a scuotere la corazza abulica del suo cinismo. Spacciamo angoscia a dei drogati che ce ne chiedono in dosi sempre maggiori, ed è difficile ormai stabilire chi abbia cominciato per primo, e perché.
Ecco, un buon punto di partenza potrebbe essere questo: superare l’eterno dissidio bene/male, notizie buone/notizie cattive. Non è l’oggetto che conta, ma il trattamento. Una fiction appiccicosa su un eroe alimenta il mio scetticismo molto più di un film di Tarantino. Allo stesso modo, il racconto di una strage autostradale di bambini affidato alla penna di Dino Buzzati mi massaggia il cuore assai meglio di un servizio becero su qualche allegra gozzoviglia di vip. Nelle botteghe dell’informazione, ma anche fuori, è passata l’idea che esistano solo due tasti da pigiare: l’urlo e lo sghignazzo, la paura e la trucidità. Il male che tira è il virus fantomatico, l’assassina con la faccia d’angelo, l’eterna rissa dei politici. E il suo corrispettivo benefico sono la volgarità e la retorica, purché camminino sulle gambe di qualche personaggio famoso.
L’informazione ha bisogno di tinte forti, la vita invece privilegia i toni tenui. Raccontare quei toni è difficile, apprezzarli ancora di più. Bisognerebbe essere stati educati. Ma la tv - l’unica ad avere il potere per farlo - in nome di un concetto assai peloso di libertà ha da tempo abdicato a questo ruolo, preferendo dare al pubblico «quello che vuole», che è come permettere a un bambino di mangiare sempre hamburger e patatine, e poi stupirti che non ti chieda cibi più sani.
La sensazione finale è lo straniamento. Qualcuno immagina che esista un Grande Vecchio che ci vuole così: emotivi, ottusi, sostanzialmente rincoglioniti da porzioni sempre maggiori di nulla spacciato per chissà che. E’ una visione inquietante, ma al tempo stesso rassicurante. Invece io penso che in questo teatrino siamo tutti burattini e burattinai. Fabbricanti e fruitori di notizie, respiriamo tutti la stessa droga, ci nutriamo di cose fasulle mentre subiamo passivamente la realtà e, come tante belle addormentate nel bosco mediatico, restiamo in attesa di un principe azzurro che ci desti dall’incantesimo. Senza renderci conto che quel principe azzurro possiamo essere soltanto noi.
«La Stampa» del 9 dicembre 2009

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