12 dicembre 2009

Spiritualità: Nietzsche battuto da Archimede

di Rémì Brague
Molti fra i nostri contempora­nei non chiedono alla reli­gione di convertirli e di san­tificarli, ma semplicemente di sod­disfarli. E se è il soggetto a decidere quale dio gli conviene, egli si situa più in alto di ogni dio possibile. Perché dunque non fare di questo soggetto la divinità stessa? Ciò che, a prima vi­sta, si presenta come un politeismo che permette la scelta, si traduce al­la fine in un monoteismo del sogget­to, collettivo o individuale.
Tuttavia, questa religione lascia sen­za risposta un quesito a mio avviso fondamentale. Essa accompagna come un’ombra tutto il pro­getto moderno di un’auto-posizione dell’uomo, di un «re­gno dell’uomo» come diceva Bacone, o di un umanismo «radi­cale » per dirla con Marx. Questo proget­to suppone che non vi sia niente di più alto dell’uomo e che l’uomo debba rendere conto so­lo a se stesso.
L’Insensato e, successivamente, il Za­ratustra messo in scena da Nietzsche hanno annunciato entrambi: «Dio è morto». Riflettiamo sulla logica im­manente di questa idea. Essa impli­ca che Dio in persona non è riuscito a vincere «l’ultimo nemico» (1Cor 15, 26). Al contrario, la morte è riuscita a spuntarla sullo stesso Dio, e quindi a rivelarsi più potente di Lui. Dopo la morte di Dio non viene il regno del­l’uomo, ma quello dell’ultimo dio che è la Morte.
In tal modo, lo sviluppo stesso del progetto di sganciamento dell’uomo da Dio pone una domanda grave: in fondo, se l’uomo è il solo abilitato a pronunciarsi sull’uomo, perché dovrebbe pronunciare un giudizio po­sitivo su se stesso? Quale istanza può dare all’umanità stessa la sua legitti­mità e, al tempo stesso, la sua nor­ma? Siamo di fronte alla stessa ne­cessità di Archimede: abbiamo biso­gno di un punto d’appoggio esterno. Una religione, può darsi. E una reli­gione che ha un dio esterno. Ma qua­le? Quale religione è la religione buo­na? È un argomento che si discute da secoli.
La questione posta ha, in effetti, un senso soltanto se il criterio del buo­no e del malvagio è esterno alle reli­gioni che occorre valutare. Ogni reli­gione pretende di essere l’unica reli­gione vera, o la più ve­ra, eccetera, o almeno è quanto fa sperare ai suoi fedeli. Di conse­guenza, l’etica che es­sa predica deve esse­re il buon cammino tout court. Un perico­lo logico risulta im­mediatamente evi­dente: quello di un ra­gionamento circola­re. Ogni religione considererà se stes­sa la migliore in base alle sue stesse valutazioni. In tal caso, il dialogo sarà impossibile.
Pertanto, ci si dovrebbe chiedere se u­na religione pretende che tali oppo­sizioni siano situate al suo interno o se, al contrario, essa accetta di farsi misurare in rapporto a un punto di vi­sta esterno. Ogni religione dovrà por­si questa domanda. Non devo farlo io al suo posto. In questa sede, posso ri­spondere unicamente per il cristia­nesimo. Qui ci aspetta una sorpresa. Il cristianesimo non pretende di da­re una nuova definizione del bene e del male, una nuova etica. La sua e­tica non è altro che l’etica che con­sente la sopravvivenza dell’umanità, vale a dire: la sopravvivenza della spe­cie umana e la permanenza di ciò che rende l’uomo realmente umano. Del­le leggi dell’Antica Alleanza esso con­serva unicamente il Decalogo. È co­me il regolamento minimo della vita comune degli uomini, che in un’altra sede ho definito, un po’ per gioco, il «kit di sopravvivenza» dell’umanità. Il grande problema della nostra epo­ca, in ogni caso nei nostri Paesi, è l’e­mergere di una nuova religione in­consapevole, quella del soggetto in­dividuale o collettivo. Rifiutando la trascendenza, questi si conferisce il diritto di scegliere la figura del divi­no che è di suo gradimento. Ma nul­la dimostra che questo divino non conduca l’uomo alla sua stessa di­struzione.
«Avvenire» del 12 dicembre 2009

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