12 dicembre 2009

Ferisce i più deboli la logica dello scontro

Quando la politica si riduce a lotta, come tra signorie cinquecentesche
di Davide Rondoni
Ma a chi serve questo scon­tro permanen­te? Lo chiamano scon­tro istituzionale, lo chiamano scontro poli­tico.
E lo è. Ma la mag­gior parte degli italiani, sono sicuro, non lo capisce. Vede ombre confuse e inquietanti agitarsi. Sente pa­role importanti volare come stracci, mi­schiate, spappolate: giustizia, mafia, i­stituzioni, Italia… E sa che, comunque, non ne viene niente di buono per loro.
L’Italia è sempre stata terra di Signori in lotta. Di potenti armati l’uno contro l’altro. Fa parte della nostra storia. E gli italiani, anche quando non si chiama­vano tali, assistevano a questi scontri di 'Signori' in lotta. Assistevano e li man­davano a quel paese, magari con il sor­riso amaro sulle labbra. Molta letteratu­ra popolare è così. E pure Dante non scherza. Questi 'Signori' hanno legitti­me ragioni, forse, da un lato e dall’altro.
Hanno una parte di verità, da una parte e dall’altra. E anche, bisogna dirlo, una certa fame di potere, da una parte e dal­l’altra. Ma il fatto è che allora, quando i pre-italiani vedevano i Signori in lotta tra loro, non c’era la democrazia. Che dovrebbe essere il governo del popolo.
E allora chiedo ancora, cercando di dar voce a quel che gli italiani non dicono, magari parandosi dietro al cinismo tea­trante che li distingue: ma a chi serve questo scontro continuo? Non serve ai poveri cristi, ai tanti poveri cristi che si attendono dalla politica, dai 'Signori' un po’ di attenzione ai problemi. Ai po­veri cristi questo scontro di sicuro non serve. E non serve ai giovani che di cer­to non sono invogliati a entrare in un’a­rena così stravolta e confusa. I poveri cristi e i giovani (nomi e sinonimi – cre­do – delle categorie più deboli del no­stro Paese) non ne vogliono certo sape­re di questa arena incomprensibile e confusa. Si voltano da un’altra parte, e questo non è un bene per la democra­zia. Lo dimostrano le analisi dei dati di ascolto delle cosiddette piazze politiche in tv. Non si desidera, ovviamente, la politica come forbito colloquio tra edu­cande, e tutti hanno ben chiaro che quando c’è troppo silenzio vuol dire che c’è qualcosa che somiglia al totali­tarismo. Non interessa nemmeno trop­po, qui, star a vedere chi ha iniziato lo scontro. Ogni parte in causa ha respon­sabilità a cui non si può sottrarre. Al momento di votare la gente, come pre­vede la democrazia, darà un segno e un giudizio. Ma nella vita sociale non conta solo il voto. Non conta solo il momento in cui la democrazia si esprime. Conta pure il momento in cui si rafforza o si indebolisce. E lo scontro permanente può forse essere la condizione normale in una situazione cinquecentesca carat­terizzata da Signorie in lotta, ma non è la condizione ideale per la crescita di u­na democrazia matura. I poveri cristi e i giovani sono condan­nati a un Cinquecento politico? Senza nemmeno la fortuna o l’onore di un Cinquecento culturale nel nostro Pae­se? La politica intesa solo come realiz­zazione di un disegno di potere (per quanto lo si presuma giusto, efficace o addirittura morale) porta inevitabil­mente allo scontro continuo. La politica è, invece, mediazione. Politica e vita i­stituzionale condotte senza senso della mediazione, fanno vittime i poveri cristi e i giovani, le parti più delicate del cor­po sociale. A loro lo scontro fa male, più che a tutti gli altri. Una ferita sorda, a cui spesso non hanno nemmeno la for­za di opporsi. Che non subiscono gri­dando, ma con il silenzio cupo della rassegnazione delusa. Un’ira sorda. Che si manifesta lontano dalla scena della politica. E allora quel grido mancato lo lancio io, con il mio niente di voce: fate le vostre lotte, ma fatele politicamente, cioè costruttivamente. Ogni scontro di­struttivo, oggi non è solo contro la de­mocrazia e le sue istituzioni. È contro i più deboli.
«Avvenire» del 12 dicembre 2009

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