16 dicembre 2009

Sì, il «disarmo» è diventato il dovere di tutti

Politici, giornalisti, cittadini
di Marco Tarquinio
Ci sono gesti che pesano più di ogni paro­la che li ha preceduti, e che a quelle pa­role – nel bene e nel male – danno nuovo pe­so. La 'pietra' scaraventata domenica sera in faccia a Silvio Berlusconi è un gesto di questo genere. Qualcuno ha detto che quella violen­za (intollerabile anche se dovesse infine e­mergere che non è stata del tutto lucida, ma quale violenza – in fondo – lo è?) appare desti­nata a rappresentare una specie di spartiac­que, un evento che segnerà un 'prima' e un 'dopo' nella infinita transizione politica nel­la quale siamo immersi da sedici anni. Il qua­si generale soprassalto che il drammatico fe­rimento del capo del governo ha provocato tende a confermarlo. Noi vogliamo augurarci che sia davvero così. Vogliamo sperare che, prima che accada qualcosa di irreparabile, ma­turi una nuova e condivisa presa di responsa­bilità.
Un po’ in tutti i partiti, del resto, sta emergen­do una profonda e preoccupata consapevo­lezza di quanto grave sia ormai l’avvelena­mento del clima politico e istituzionale. Ed è sempre più evidente che nell’Italia del ritor­nante bipolarismo furioso è necessario e ur­gente che venga, finalmente, il tempo del 'di­sarmo'. Quel disarmo che evoca il presiden­te della Repubblica, quando chiede che si pon­ga fine a ogni esasperazione della polemica. Quel letterale disarmo che, con sereno amo­re per il Paese e con razionale allarme, conti­nuano a invocare da mesi le voci più autore­voli della Chiesa e del mondo cattolico italia­no.
Anche da un male può nascere un bene, lo sappiamo. E l’aggressione fisica al presidente del Consiglio potrebbe, effettivamente, pro­piziare un cambiamento positivo di clima nei palazzi e nella società. Non si tratta, ovvia­mente, di annullare le differenze, di silenzia­re i diversi pareri e di uniformare le distinte sensibilità, ma di riportare a un decente tasso di civiltà il confronto politico e il rapporto tra le istituzioni e di abbandonare l’indecente ten­denza alla demonizzazione dell’avversario e al non rispetto del responso democratico delle elezioni. Nella cosiddetta Seconda Repubbli­ca, la legittimazione reciproca tra schieramenti e leader, il mutuo riconoscimento di ruoli e funzioni, la convergenza per il bene comune sono stati considerati disdicevoli sinonimi di inciucio, di cedimento, di terzismo... E le con­seguenze si vedono. Anzi, si patiscono.
Una svolta s’impone. Nessuno può permet­tersi di distogliere lo sguardo dal volto insan­guinato di Silvio Berlusconi. E nessuno, tan­tomeno chi l’ha subìto, può sottovalutare l’«esemplarità» dell’atto di violenza compiu­to da chi quel sangue ha versato. Un gesto de­vastante, che ha ricordato a tutti noi che le pa­role di fuoco armano azioni e reazioni, che colpire è possibile e che a voler colpire ci si rie­sce. Tanti leader e cittadini semplici l’hanno percepito immediatamente, e la memoria de­gli anni di piombo ha dato vigore e lucidità al­l’indignazione e alla volontà di spazzare via anche solo l’idea di quelle possibilità feroci. Ma a non pochi, soprattutto tra i più giovani (basta aver fatto un giro su certi siti internet o aver sbirciato su facebook o anche solo aver sfogliato i giornali), sembra sfuggire la porta­ta dell’escalation che incombe.
Il problema, probabilmente, sono quanti non hanno avuto esperienza dell’onda di odio, ter­rore e morte che attraversò gli anni 70 e 80 del secolo scorso. E, forse, il problema sono anche coloro che quell’esperienza l’hanno rimossa. Ma, a nostro avviso, il problema sono soprat­tutto coloro che, ovunque oggi si siano collo­cati politicamente, di quegli anni terribili han­no conservato l’idea che la battaglia politica con avversari proclamati «nemici» possa e debba diventare, costi quel che costi, una sor­ta di ordalìa. Naturalmente non ci sono più armi, ci sono 'solo' parole, ma quando ci so­no le parole d’ordine e di disordine – come si è visto domenica sera – le armi che non ci so­no si possono sempre inventare.
Sì, il disarmo è assolutamente indispensabi­le. E dovrebbero tenerlo a mente tutti i belli­cosi. Quelli che neanche in questo frangente sono stati capaci di dare una solidarietà lim­pida al presidente del Consiglio. E quelli che parlano alla rinfusa di «mandanti morali» del­l’aggressore antiberlusconiano e, così facen­do, si allineano alla logica dell’aggressione. Po­litici, giornalisti, cittadini siamo tutti sulla stes­sa barca. Con responsabilità diverse, ma uno stesso dovere.
«Avvenire» del 16 dicembre 2009

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