03 dicembre 2009

Le carte di Lukashenko: «Armir, così morirono 70 mila prigionieri»

Gli storici e i documenti consegnati dal leader bielorusso al premier: furono falciati da fame e tifo
di Dino Messina
«Crocevia tra il totalitarismo nazista e lo stalinismo, occupata nel 1941 dai tedeschi e liberata nel 1944 dall' Urss, la Bielorussia custodisce ancora segreti il cui svelamento è importante per la comprensione del Novecento. In questo senso i documenti affidati da Aleksandr Lukashenko a Silvio Berlusconi sono sicuramente un materiale molto interessante per noi studiosi». Federigo Argentieri, docente all'università John Cabot di Roma, specialista dell' Europa centro-orientale, come molti storici aspetta di vedere dove finiranno i faldoni provenienti da Minsk, «se saranno affidati a un archivio o a una commissione di esperti». Quei documenti trovati nei «vari archivi della sicurezza interna in Bielorussia e in Russia» potrebbero svelare il tragico destino di alcuni comunisti italiani in fuga dal fascismo ed epurati nell' Urss degli anni Trenta, ma soprattutto raccontarci in quali condizioni morirono i circa settantamila prigionieri dell' Armir, l'armata italiana in Russia sconfitta dalle truppe sovietiche tra la fine del 1942 e l' inizio del 1943. Andrea Graziosi, docente all'Università di Napoli e autore di «L'Urss dal trionfo al degrado» (il Mulino 2008) ipotizza che quelle carte ci diranno molto soprattutto sulla fine dei nostri soldati in Russia. Una convinzione condivisa da Maria Teresa Giusti, autrice nel 2003 del maggiore studio sull' argomento, «Prigionieri italiani in Russia», appena tradotto da un editore di San Pietroburgo con introduzione di Victor Zaslavsky, lo studioso di recente scomparso. «Non escludo - dice Maria Teresa Giusti, docente all'Università di Chieti e costretta ad abbandonare la sua città, L'Aquila, dopo il terremoto del 6 aprile - che alcuni documenti donati da Lukashenko possano risalire alle persecuzioni degli anni Trenta, perché il sistema dei gulag, al contrario di quel che si pensa, era molto diffuso. Tuttavia la maggior parte del materiale dovrebbe riguardare i prigionieri dell'Armir. L'ottava armata, composta da 230 mila soldati, subì grandi perdite: le vittime furono almeno novantamila, di cui settantamila morirono in prigionia». Tra i prigionieri italiani, «il tasso di mortalità fu del 56 per cento. Un dato impressionante e certamente superiore a quello registrato tra i soldati tedeschi. L'elevata mortalità si spiega con il periodo in cui avvenne la cattura, il duro inverno 1942-1943, e con l'insufficiente equipaggiamento del nostro esercito. La maggior parte dei prigionieri italiani morì per fame e per tifo». Molti erano detenuti «in condizioni disumane - sostiene la storica aquilana - ma non vi furono particolari episodi di crudeltà e accanimento verso i nostri soldati, come invece avvenne nei Balcani». I documenti provenienti da Minsk potrebbero tuttavia svelare aspetti raccapriccianti, per esempio casi di cannibalismo simili a quelli già riscontrati dalla studiosa in alcuni campi di prigionia, ma anche tra la popolazione sovietica: «A Samarcanda i rappresentanti del partito locale scrissero a Stalin e a Molotov per lanciare l'allarme sulla mancanza di cibo e raccontarono che al mercato era stato arrestato un tredicenne che vendeva carne umana». Le statistiche ufficiali dell' Urss non dicevano tutta la verità: «I nostri prigionieri censiti - continua la Giusti - erano soltanto sessantaquattromila, una cifra che evidentemente non contava i morti durante gli estenuanti trasferimenti». Allo stesso modo spesso non si scorpora un altro dato: «Tra il 1945 e il 1946 tornarono in Italia dalla Russia circa ventiduemila uomini. Prima i soldati semplici, poi gli ufficiali, seguendo un criterio voluto dal leader del Pci Palmiro Togliatti, il quale temeva il voto dei graduati al referendum istituzionale tra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946. Ebbene, di quei ventiduemila prigionieri rilasciati, poco più di diecimila erano reduci dell' Armir, gli altri erano internati militati italiani, prima catturati dai tedeschi su tutti i fronti di guerra dopo l'8 settembre 1943 e poi finiti nelle mani dei sovietici». I tre generali prigionieri, Pascolini, Ricagno e Battisti, furono liberati nel 1952. Una trentina di ufficiali, condannati a morte come criminali di guerra, pena poi commutata in ergastolo, vennero rimpatriati soltanto nel 1954: tra questi il cappellano Brevi, il tenente medico Reginato, il capitano Jovino. Spesso il solo crimine commesso era il rifiuto dell'indottrinamento comunista. Anche su questo aspetto i documenti di Minsk potrebbero rivelarci particolari interessanti.
«Corriere della Sera» del 2 dicembre 2009

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