19 dicembre 2009

Il Nobel mancato dei dottori Corti

Perché il prestigioso premio non va mai a medici «sul campo» come i coniugi Piero e Lucille, che hanno creato in Uganda un ospedale modello?
di Enrico Negrotti
Il libro del 50° del loro «sogno» missionario
Cinquant’anni di vita per un o­spedale in Uganda meritano qualcosa di più di una cele­brazione formale. Se poi questo o­spedale è il Lacor Hospital di Gulu, letteralmente «inventato» nel corso dei decenni dai coniugi medici Lu­cille Teasdale, chirurgo canadese, e Piero Corti, pediatra italiano, le pa­role sembrano sempre inadeguate. La storia di questa impresa, che ha trasformato il piccolo ambulatorio medico fondato nel 1959 dai missio­nari comboniani in uno degli ospe­dali più avanzati e meglio organizza­ti di tutta l’Africa subsahariana, è ora ripercorsa in un libro di lettere e te­stimonianze pubblicato dalla Fon­dazione Piero e Lucille Corti (Dal so­gno alla realtà, pagine 376, euro 25,00), che viene presentato domani a Milano (auditorium San Fedele, via Hoepli 3, ore 17).
Il titolo indica il realizzarsi delle a­spirazioni dei due protagonisti che sin dai primi anni in Uganda ebbero chiari alcuni obiettivi, riassunti da Lu­cille in una lettera del 1985: «Svilup­pare un ospedale il più completo ed efficiente possibile al più basso costo possibile; dimostrare che con mezzi modesti, ma con buona volontà, co­raggio e iniziativa, si può arrivare a fare molto anche in un ospedale nel­la savana; il fine ultimo è senza dub­bio l’africanizzazione più completa possibile: dopo le infermiere, i para­medici e i medici, ci resta l’ammini­strazione e la direzione, ma durante tutto questo tempo abbiamo capito che africanizzare non vuol dire pre­parare rapidamente e rimpiazzare un bianco con un nero, ma vuol dire la­vorare insieme per un lungo perio­do ». Questo affiancamento ha sfida­to tutte le difficoltà: dalla scarsità di risorse ai difficili anni Settanta con la dittatura di Idi Amin, dalla guerra con la Tanzania nel 1979 al caos dei pri­mi anni Ottanta, fino alla guerriglia che, in un alternarsi di tregue provvi­sorie e nuovi saccheggi, ha procura­to infinite sofferenze alla popolazio­ne: uno stato di insicurezza, e spesso di puro terrore, durato dal 1986 al 2007.
Ma mai – neppure nei momenti più bui – Piero e Lucille hanno pensato di abbandonare i loro pazienti, i loro a­mici ugandesi, sopportando anche la separazione per lunghi periodi dalla figlia Dominique, mandata a studia­re in Kenia e in Italia. Se Piero ha ri­schiato di essere ucciso dai soldati di Amin, Lucille ha contratto il virus Hiv operando decine e decine di soldati feriti, quando ancora non si cono­sceva l’esistenza dell’Aids. Le capa- cità cliniche di questo chirurgo (la pri­ma donna con questa specialità in Canada negli anni Cinquanta) sono testimoniate dalle decine di migliaia di interventi eseguiti nel corso di 35 anni di attività, con ritmi di lavoro che parevano insostenibili anche ai gio­vani medici europei che giungevano al Lacor. Osservava il marito Piero in una lettera del 1983 a Guido Caprio, che per conto dell’Associazione me­dici cattolici aveva proposto i coniu­gi Corti per il Nobel della Pace: «Non passano dieci giorni senza che io ri­scopra una ragione valida per l’attri­buzione del Nobel a Lucille. Ma più per la Medicina che per la Pace: a co­sa valgono tante magnifiche scoper­te in campo medico se poi non sono applicate nei due terzi del mondo? Lucille risolve buona parte dei pro­blemi medici di circa seimila pazien­ti ospedalizzati e di sessantamila pa­zienti ambulatoriali ogni anno». E ha continuato a lavorare fino a tre mesi dalla morte, quando pesava solo 35 chili: l’amore per «la dottoressa» – di­sponibile con i malati, ma inflessibi­le sul lavoro (con sé e con gli altri) – è stato testimoniato da tre generazio­ni di suoi pazienti nell’interminabile fila che venne a renderle omaggio quando fu portata al Lacor per i fu­nerali nell’agosto 1996.
Accanto a lei Piero ha rappresentato il motore organizzativo, inesauribile di energie e nuove iniziative: la scuo­la infermiere, nuovi pozzi, nuovi re­parti, nuove infrastrutture, l’acco­glienza di giovani medici ugandesi ti­rocinanti, fino a rendere l’ospedale polo didattico dell’università di Gu­lu (nel gennaio prossimo i primi lau­reati). E all’intuizione della necessità di due fondazioni (una in Canada e u­na in Italia) per continuare a fornire sostegno economico e logistico al La­cor. Toccante è la testimonianza resa da un suo collaboratore, il dottor Bru­no Molinari, nel descrivere il funera­le svoltosi nella basilica di Besana in Brianza, adattando alla figura di Pie­ro le strofe del canto intonato dalla corale: «Quando busserò».
Ma la storia più tragica, riassunta nel libro soprattutto dal diario di fratel E­lio Croce (missionario comboniano a capo dell’unità tecnica), è quella di Matthew Lukwiya, brillante medico ugandese, morto nell’epidemia di e­bola nel dicembre 2000. Già da tiro­cinante al Lacor nel 1983 era stato no­tato da Piero e da Lucille per le sue qualità fuori dal comune, pienamen­te confermate nel suo percorso di specializzazione (anche in Europa): divenuto direttore sanitario dell’o­spedale, intuì subito la gravità dell’e­pidemia e organizzò in modo esem­plare il reparto per curare i malati, con un esempio di dedizione in pri­ma persona che se servì a ridurre il contagio, non gli evitò però di cade­re vittima del terribile virus. I tre pro­tagonisti ora riposano uno accanto all’altro nella stessa aiuola del Lacor, ma l’ospedale continua la sua opera per portare cure e salute alla popola­zione: ora ha 476 letti e nel 2007/2008 ha curato oltre trecentomila pazien­ti, la metà bambini sotto i sei anni. È guidato da tre medici ugandesi, come volevano Piero e Lucille: il direttore generale Opira Cyprian, il direttore sanitario Odong Emintone, il diret­tore istituzionale Ogwang Martin. Ac­canto a loro opera la fondazione Pie­ro e Lucille Corti, diretta dalla figlia Dominique: ha studiato per fare il medico, ma «per aiutare il Lacor si de­ve fare ciò di cui c’è bisogno, non ciò che si desidera», nel difficile compi­to di traghettare l’ospedale nel futu­ro, «secondo la filosofia e lo spirito che ha finora animato il Lacor».
«Avvenire» del 18 dicembre 2009

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