03 dicembre 2009

Gozzano, tra evasione e rifugio la prima rivoluzione del Novecento

I suoi antieroi oscillano tra esotismo e nostalgia. Dalla «Signorina Felicita» all' «Amica di nonna Speranza»
di Giorgio De Rienzo
Con i crepuscolari esplode un' ambigua e scettica malinconia Simboli Una scrittura giocata tra lo spazio e il luogo, un benessere borghese rappresentato dalla sua città e dalla «villa»
È il 2 settembre 1908. Guido Gozzano, in un giorno felice della sua breve vita, scrive ad Amalia Guglielminetti: «Immaginatevi che in una cassetta ho circa trecento crisalidi di tutte specie da bruchi allevati con infinita pazienza per settimane e settimane; ora sono tutti appesi al coperchio graticolato e hanno preso la forma strana di crostacei stilizzati per il monile d' una signora. Fra pochi giorni saranno farfalle». Passano due settimane. Guido apre la cassetta e descrive all' amica il prodigio a cui assiste: «Ho chiuso la finestra... ed è stato nella mia grande camera chiara, un frusciare turbinoso di prigioniere...». Dopo qualche anno, Gozzano nel frammento di un poema (Epistole entomologiche, destinato a rimanere inedito) replicherà il gioco. Il poeta si rappresenta chiuso in una stanza: spia la trasformazione delle crisalidi. Prima che le farfalle volino via, le crisalidi sopite pendono dal soffitto, dagli scaffali di una libreria, e popolano la stanza di presenze prossime a essere defunte, di strane apparenze che sembrano già appartenere solo al passato. È come se il poeta si trovasse davanti a un regno intermedio tra la vita e la morte. La stanza diventa allora per lui la «reggia del non essere più, del non essere ancora». Vita e morte si toccano e lasciano Gozzano malinconico e affascinato. Questa immagine di smarrimento rappresenta bene il clima in cui nasce la letteratura del nostro primo Novecento. È vero, esiste un Novecento della critica, vivo nell' ansia di programmare, teorizzare, ricostruire; ma c' è anche un Novecento della crisi che svela, dietro a quella forza appariscente, una sensazione di vuoto esistenziale, da cui nascono esami introspettivi dolorosi. Verrà l'approdo di Luigi Pirandello a un sentimento nichilistico di solitudine. C'era già stata (e ci sarà) l'esasperata analisi psicologica di Italo Svevo, ma intanto prende spazio, nei primi anni del secolo, l'ambigua e scettica malinconia dei crepuscolari, di cui è testimonianza appunto la poesia di Gozzano, autore di due raccolte di versi: La via del rifugio del 1907 e I colloqui del 1911. Nella scrittura del «bel Guido» ricorre una coppia verbale: lo «spazio» e il «tempo». La sua poesia parte da uno «sgomento», da un' esigenza di rifugio dall' inquietante incombere di queste due parole. Il «cuore» che batte nei versi «teme gli orizzonti troppo vasti», ama la protezione dei confini limitati e familiari. Ed ecco Torino, la città nativa, che non è per il poeta la metropoli industriale che si sta sviluppando, ma la città che ispira ancora una cordiale e protettiva fiducia: «Un po' vecchiotta, provinciale, fresca / tuttavia d' un tal garbo parigino / in te ritrovo me stesso bambino, / ritrovo la mia grazia fanciullesca / e mi sei cara come la fantesca / che m' ha veduto nascere, o Torino!». Ecco le Alpi senza l' immensità di panorami, ma - al contrario - intime e riposanti, rivestite di boschi. E infine il Canavese, la terra dell' infanzia e dei rifugi estivi: quel «Canavese privo di fulgidi passati, ma verde di riposi ristoratori, dove l' anima si adagia come una buona borghese». Un senso di benessere borghese, temperato e calmo, si può facilmente isolare nella poesia gozzaniana. Ne è l' immagine simbolica la «villa», con (all' esterno) il frutteto e il giardino, che sembrano polemicamente opporsi al «parco» dei poemi di d' Annunzio e con (all' interno) il «salotto» pieno di piccole cose domestiche che segnano uno spazio quieto e un po' angusto: «Loreto impagliato ed il busto di Alfieri, di Napoleone / i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto) / il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro». Insomma l' immagine di uno spazio raccolto, colmo di pace e silenzio. Un «buon silenzio», reso più rassicurante da suoni familiari: il tonfo di un frutto che cade, il tic-tac d' un orologio, il ritmo dell' acciottolio in cucina, il rumore lontano di una trebbiatrice. Una pace resa ancora più confidenziale dagli odori familiari di «basilico, d' aglio e di cedrina», dal buon «aroma» di caffè. Mentre sopra a tutto si apre un cielo familiare: con una luna tranquilla, priva di inquietanti qualità astrali: «la luna sopra il campanile antico» che «pareva un punto sopra una I gigante». Ma a questo desiderio di rifugio si oppone nella poesia di Gozzano un bisogno di evasione, un' ansia di orizzonti lontani, una nostalgia esotica. Accade nell'esperienza dello spazio e in quella del tempo. Al senso di un tempo che trascorre e dissolve le certezze dell' uomo («Tempo che i sogni umani / volgi sulla tua strada... / o tu che tutte fai vane le nostre tempre: / e vano dire sempre / e vano dire mai»), si oppone l' urgenza di un riposo nella memoria, di una ricerca del tempo perduto. Nasce di qui il gusto della «stampa» antica, che è appunto il modo di tradurre il desiderio di fissare il passato: e di stampe è arredata la poesia di Gozzano, come dimostrano in modo esemplare Torino, certi scorci dell' Amica di nonna Speranza e della Signorina Felicita. Ancora una volta dunque ritorna una condizione di perplessa inquietudine, di sofferta instabilità, di oscillazione continua fra poli opposti. La poesia di Gozzano sta nel contrappunto di motivi contrastanti di cui ogni singola unità non conta, ma conta il totale valore di tali motivi. L' immagine complessa del suo mondo interiore è rappresentata compiutamente solo dalla completa vicenda fantastica dei temi contrapposti: dall' armonia che risulta tra «rifugio» e «fuga». Così nei versi di Gozzano si coglie un' angoscia di ciò che invecchia e insieme una forte adesione alla freschezza della natura florida e intatta; si osserva una noia per le cose quotidiane e insieme un turgido desiderio di vita reale e concreta. In questa oscillazione di contrasti, nel palpito musicale dal rifugio all' evasione, sta la misura della poesia gozzaniana: una poesia che sa esprimersi in una scrittura che si muove graziosamente tra cadenze prosastiche e raffinatezze espressive.
Chiedo al sogno di resuscitare il passato e ridarmi la mia Torino E sco, scendo verso Torino che traspare in un velario a tre tinte: viola, rosa, verde, tagliato dall' argento sinuoso del fiume, dall' argento dentato delle Alpi. Sono felice. Zufolo, canto. (...) La Bela Madamin! La Principessa Maria Carolina Antonietta di Savoia, figlia di Vittorio Amedeo III, sposata per procura del fratello Carlo Emanuele al Principe Antonio Clemente Duca di Sassonia... Io so tutto di lei e della sua vita candida e breve: conosco date, nomi, episodi, cifre. Mi guarderò bene dal ricordarli in quest' ora di poesia. E ancora una volta chiederò al sogno, al sogno soltanto, la cosa impossibile a tutti (anche impossibile a Dio): resuscitare il passato. Ed ecco, la Torino di oggi scompare. Scendo al piano. Dove sono? Non riconosco il sobborgo oltre Po, non ritrovo il tempio della Gran Madre. Sono perduto in un bosco selvaggio ed arcaico, anche le piante hanno uno stile, anche le nubi; questo cielo non è del tempo nostro, queste querce, questi olmi che confondono la ramaglia in alto, formando un corridoio sulla strada mal tenuta e disagevole, non sono alberi dei nostri giorni, imitano troppo bene i gobelins e gli arazzi... M' orizzonto. Vedo a sinistra, sulla verzura selvaggia, il Monte dei Cappuccini, a destra la Basilica di Superga: siamo dunque dopo la metà del 1700. Cammino lungo il fiume: è bene il Po, lo sento; ma senz' argini, primitivo, d' altri tempi esso pure... È Torino? Mi prende il brivido pauroso dei sogni, quando si vedono le cose famigliari stranamente deformate dall' incubo. Ecco la città. Torino? (tratto da «La Torino del passato»)
«Corriere della Sera» del 2 dicembre 2009

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