16 dicembre 2009

Giorgione svelato leggendo Virgilio

Una grande mostra a 500 anni dalla morte. Nel famosissimo quadro «La «Tempesta» sarebbe raffigurata la nascita di Silvio, figlio postumo di Enea. Mentre l’«Alabardiere» potrebbe essere «Enea e Anchise agli inferi»
di Massimo Pulini
Come è noto Le Vite di Giorgio Vasari segnano l’avvio della moderna storiografia artistica ma al loro interno, tra le migliaia di o­pere ricordate, vi è un dipinto vene­ziano che fa subito comprendere co­me questa disciplina sia destinata ad accompagnarsi al dubbio. Tra la prima e la seconda edizione del suo capita­le testo il cronista-pittore aretino cam­bia idea circa l’autore del Cristo por­tacroce, tuttora conservato nella Scuo­la Grande di San Rocco. All’inizio, nel 1550, lo dice di Giorgione mentre di­ciotto anni dopo, nell’ultima versio­ne, si corregge in favore di Tiziano. Nel frattempo la tela era divenuta la più famosa e venerata della città laguna­re e lo stesso Vasari si divertì a dire che quell’unico quadro aveva già raccolto, in elemosine, molto più di quello che Giorgione e Tiziano erano riusciti a guadagnare nell’arco della loro vita.
Zorzi da Castelfranco, a differenza del longevo doge della pittura, non ebbe modo di diventare ricco, non rag­giunse nemmeno l’età di Cristo, mo­rendo in tempo di peste giusto mez­zo millennio fa. Di lui conosciamo u­na parte esigua del tanto che riuscì a dipingere, ma è stata sufficiente a far­lo diventare oltremodo famoso, a ren­derlo simile ad una divinità i cui con­torni si perdono nell’orizzonte di un paesaggio mitologico.
Quelle poche pitture, per giunta, ven­gono periodicamente messe in forse, nell’attribuzione o nel significato, a partire dal Vasari ma con un aumen­to esponenziale delle dispute nel No­vecento, fino al punto che, come scris­se D’Annunzio, «...taluno non gli rico­nosce alcuna opera certa. Pure, tutta l’arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione...».
Questo sembra il destino di Giorgio­ne: è certa la sua grandezza ma è gran­de anche la precarietà delle sue cer­tezze. Tutto questo lo fa divenire me­tafora e emblema della stessa storia dell’arte, intesa come scienza delle o­pinioni.
Eppure i quadri esistono, sparsi nei quattro cantoni del mondo, a raccon­tarci i loro enigmi più complessi e, an­che per questo, più avvincenti. Così li si chiama a convegno ogni volta che le analisi condotte su un capolavoro sembrano diradarne la nebbia della lettura; quando un restauro vi elimi­na qualche figura aggiunta o ne rive­la un’altra fino ad ora celata; ogni vol­ta che un centenario, della nascita o della morte, si affaccia alla soglia del presente. Non tutti si sono mossi al­l’appello indetto dal magnifico paese natale - Castelfranco Veneto - , non lo fanno nemmeno le star di un disciol­to complesso musicale, ma, dopo quella veneziana del 1955, questa è la più completa e studiata esposizione che in suo nome sia stata fatta.
È la prima volta che il presepe delle o­pere giorgionesche, dalla Tempesta al Tramonto, viene allestito attorno alla sublime pala della cappella Costanzo, vicino al trono rialzato della Vergine e del Bambino, che sembrano volare sul paesaggio terso delle colline trevigia­ne. Sotto di loro, nel drastico taglio se­gnato da due paraventi di velluto ros­so, quel che sembra un altro quadro è ambientato in un interno, con due santi in piedi davanti ad un sepolcro di pietra che ha color della terra, en­tro cui riposa Matteo Costanzo mor­to, a soli 23 anni, nella guerra detta del Casentino.
Al cospetto di questa Madonna della tregua, così venne intesa dal Pignatti, verrebbe voglia di chiedere pace all’a­gone delle idee e almeno per tutto l’ar­co della mostra, curata egregiamente da Enrico Maria Dal Pozzolo e da Lio­nello Puppi (catalogo Skira), si lascino parlare i quadri nella loro eloquenza muta.
Invece so già che ripartiranno le pole­miche e che, forse senza intenzione, verranno stanate proprio dall’evento di Castelfranco. Prenderanno le mos­se dalla semplice lettura delle dida­scalie poste in calce alle opere, perché un titolo bisogna pur darlo ma con quello già si parteggia per una corrente iconologica a discapito di un’altra.
Dopo le infinite ipotesi sulla Tempesta resta ad esempio fuori dalla mostra e dal catalogo, perché resa nota troppo di recente, quella che a mio avviso è la via maestra per interpretarne il tema. Una strada proposta da Carlo Falcia­ni in un saggio, circostanziato e mira­bile, apparso sull’ultimo numero del­la rivista 'Lo Studiolo', in cui si ana­lizza un poemetto scritto nel 1482 da Bernardino da Firenze e dedicato alla famiglia Vendramin, la stessa che una ventina di anni più tardi chiederà a Giorgione l’esecuzione del quadro. Il volume encomiastico fonda le sue ra­gioni concettuali sul paragone tra An- drea Vendramin, che nel Trecento fu il vanto militare del casato, e Silvio, figlio postumo di Enea, che da adulto ot­tenne l’asta pura, massima onorifi­cenza ai soldati dell’antichità. Sinte­tizzando, secondo Falciani la scena di­pinta dall’artista sarebbe da leggersi come la nascita di Silvio nel bosco, os­servata da se medesimo adulto, in e­vocazione del passo di Virgilio in cui Anchise accoglie Enea nella terra dei morti rivelandogli la nascita silvana del figlio. Aggiungo io che, per questa stessa ragione, penso alla figura del soldato come allo stesso Enea, colto nell’atto di scrutare, di qua dal fiume simbolico, la propria sposa allattare il piccolo Silvio.
Il Giorgione virgiliano, sostanzial­mente eluso dall’apparato critico del­la mostra, non è però una 'invenzio­ne' dell’ultima ora e può fornire uno sguardo diverso anche a opere a pri­ma vista generiche, come l’Alabardie­re con altra figura di Vienna (così re­cita la didascalia) che, secondo una geniale intuizione di Maurizio Calve­si, sarebbe invece il perduto Enea e An­chise agli inferi , ricordato dalle fonti nella raccolta Contarini.
Infine, per chi avesse paura di infran­gere la sacralità di un mistero nell’in­dividuare il senso recondito di un’o­pera, soccorre proprio questo svela­mento di Calvesi che invece restitui­sce una struggente poesia sentimen­tale ad una tela finora sospesa in un purgatorio decorativo. Il vecchio An­chise, ombra nell’ombra, sfiora la ma­no al figlio mentre gli sta rivelando il futuro, così lo sguardo di Enea, che dal pieno dei pensieri si perde nel vuoto, riacquista una assoluta e commoven­te pregnanza concettuale.
Castelfranco Veneto, Museo Casa Giorgione
GIORGIONE
Fino a 11 aprile 2010

«Avvenire» del 15 dicembre 2009

1 commento:

  1. Enea Non poteva osservare il figlio Silvio dato che Nacque postumo il giovane nel dipinto è Silvio "Colui,che vedi,quel giovane che all'asta pura s'appoggia ,èil più vicino allaluce per sorte...."(v.760-761,L.VI, Eneide.

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