03 dicembre 2009

Dal Purgatorio al riso di Svevo: il tempo misterioso dei capolavori

Una collana per ritrovare il fascino dei libri che hanno fatto la letteratura. E insegnano come si legge
di Giorgio Montefoschi
Perché le grandi opere rivelano i loro segreti in momenti diversi Ispirazioni Quando la Morante scriveva usando come modello i «Promessi sposi» e ascoltando dentro di sé la voce di Manzoni
Quando fu pubblicata la Gerusalemme liberata, l'Accademia della Crusca, probabilmente indotta dal fanatismo per l'Ariosto, sparse veleno. Secondo i dotti accademici, il poema in venti canti nei quali Torquato Tasso narrava le avventure di Tancredi e Clorinda, Rinaldo e Armida e dei cavalieri della Prima Crociata guidati da Goffredo di Buglione che nell'anno 1099 stringevano d'assedio Gerusalemme, «era un pesante e freddo centone, di stile oscuro e ineguale, pieno di versi ridicoli, di parole barbare, privo di qualunque bellezza in grado di riscattare i suoi innumerevoli difetti». L'ammirazione popolare fece giustizia delle eresie accademiche. Ma, certamente, questo episodio deve proporre una riflessione sui destini delle opere letterarie (in particolare ai nostri giorni); sulla fortuna o sfortuna delle stesse; e, ovviamente, e in primo luogo, sulla definitiva e inappellabile importanza del tempo - il trascorrere del tempo - per quanto riguarda i «classici». Perché, in quel caso, prima del saggio trascorrere del tempo, cos' era successo? Era successo che mentre i lettori comuni capivano la bellezza dei suoi versi, e Montaigne (dunque un sapiente vero) faceva visita al Tasso, avendone riconosciuto l' immenso valore, dei sapienti finti non avevano capito nulla. Alcuni secoli più tardi, Goethe, a proposito del Tasso, scrisse: «Quanto è bello contemplarsi nel genio di quest' uomo!». E Chateaubriand, nelle Memorie d' oltretomba, fece un vero e proprio pellegrinaggio nei luoghi del dolore di colui che egli stimava essere «L'Omero italiano». Gli accademici, invece, spargevano veleno. Così, sappiamo che molti possono essere gli intralci al percorso di un' opera che poi il tempo, certamente, definirà classica. E che non sempre (come nel caso di Dickens), il favore popolare equivale a un decreto di mediocrità. Certo, l' equazione è largamente sostenibile. Ma, a volte, ci si mette pure l'Accademia. Incredibile! Dunque: il tempo. Quello, abbiamo detto, non fallisce mai: se un libro resiste nel tempo, ci sarà pure un motivo. E questo motivo sta nei suoi valori indistruttibili; nella sua bellezza; nel saper rispecchiare gli archetipi di sempre; o l' anima di un popolo, di una nazione. Ma - i lettori perdoneranno questo semplice gioco di parole - c' è tempo e tempo. Esiste, infatti, un tempo, per la lettura dei classici, che può anche non essere il tempo giusto. Come accade tante volte nella scuola; oppure nella vita di ogni giorno. Quanti classici abbiamo letto male perché li abbiamo letti distrattamente o perché aiutati da spiegazioni incompetenti o distratte! Quanti classici abbiamo riscoperto e capito soltanto perché avevamo venti o trent' anni di più! Quante pagine che una volta ci erano sembrate astruse o mute, rilette a una distanza di anni, hanno rivelato la loro superba bellezza! Racconterò, per onestà di lettore, di aver riletto recentemente, proprio a distanza degli anni del liceo, tutto il Purgatorio e di aver scoperto in tutto quel chiaroscuro che lo avvolge una forza commovente. Quasi sempre, gli studenti si lasciano maggiormente conquistare dagli abissi infernali della colpa o dalle luci eteree del Paradiso e il Purgatorio è considerato un «passaggio». Ma, in quel passaggio dal Male al Bene, dalla Oscurità alla Luce, c' è la grandezza del dissidio umano. Come vediamo nel sublime Canto XXX, il canto in cui Dante incontra Beatrice alle soglie del Paradiso. Beatrice è su un carro, chiama Dante per la prima volta per nome (ma lui già l'ha riconosciuta nel cuore) e ripete il racconto del suo smarrimento: di come l'uomo che l'amava si è smarrito. È un canto, questo - alle soglie della beatitudine e della verità - pieno di lacrime, pieno di sentimenti umani che si combattono, pieno di tensioni che poi si sciolgono, pieno di memoria. Ecco, allora. Un' altra lettura che, come per prescrizione medica, si dovrebbe fare almeno una volta ogni cinque anni, è quella del più grande e più perfetto romanzo italiano: I promessi sposi. Certo, bisognerà rileggere tante cose e, avvicinandosi alla modernità, Verga e Nievo e Pirandello e La coscienza di Zeno (il romanzo, che induce a tratti a un folle riso, di quel genio chissà quanto consapevole di vivere in una città - Trieste - al confine fra un mondo sepolto e uno nascente), tuttavia, quella dei Promessi sposi è una vera prescrizione. Non fosse altro che per ragionare e tornare a ragionare e riflettere su come si deve scrivere in italiano: su come impostare una frase, un periodo di più frasi, una pagina. Secondo quella misura semplice della parola e insieme profondamente classica che è propria, appunto di Alessandro Manzoni. I classici servono molto anche agli scrittori: che continuamente (consapevoli o inconsapevoli che siano) si misurano con i classici. C' è, in Italia, un esempio al proposito abbastanza clamoroso. E riguarda una scrittrice bravissima, Elsa Morante, e un suo romanzo bellissimo: Menzogna e sortilegio, e proprio i Promessi sposi. Prendiamo due esempi. Scrive la Morante in Menzogna e sortilegio una frase di questo tipo: «Di tal sorta erano i pensieri che venivano a Edoardo allorché s' affacciava per caso fuor del suo giovane presente». Ed ecco Manzoni: «Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini». E ancora, in M. e S.: «In quella stessa mattina, Alessandra, raggiante sulla soglia della sua nuova casa, nell' abito nuovo, adorna dei ricchi ori, accoglieva i complimenti delle amiche». E Manzoni: «Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa e le facevano forza perché si lasciasse vedere». Gli altri esempi proponibili sono numerosissimi. Insomma: perché, Elsa Morante, aveva in mente questa «voce» manzoniana? Cos'altro non significa, questa presenza, al fianco del libro che stava scrivendo, dei Promessi sposi, se non il desiderio di avere un modello classico, di sentire un classico nelle cui orme procedere o distaccarsi?
«Corriere della Sera» del 2 dicembre 2009

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