08 dicembre 2009

Così impazziscono uomini e società

Giornali di guerra e guerra di giornali
di Davide Rondoni
Un direttore di giornale ha dunque ammesso di aver sbagliato nella sua campagna contro un collega. E che collega: Dino Boffo.
Recupero a tempo scaduto di un orribile episodio disinformativo. O purtroppo, come si diceva ieri sulla prima di questo giornale, non solo un episodio, ma un rischio ancora aperto per tutti. Ormai accade spesso che i lettori (certo non quelli di questo giornale) trovino i quotidiani l’un contro l’altro schierati. Più occupati a far la guerra tra loro che a dar conto delle notizie. Insomma, giornali come strumento di lotta politica. Il problema, naturalmente, non è solo di oggi: in molte occasioni del passato avere un giornale o l’altro sottobraccio era un segnale di militanza o uno spregio del pericolo di risse e contumelie. E non è problema solo italiano. Basta ricordare la recente durissima polemica di Obama contro una forte rete televisiva accusata di comportarsi come un partito contro di lui. Il virus è diffuso, ma non per questo meno odioso, e ne vanno comprese le radici per correggerlo.
Trasformare il lavoro giornalistico in lotta politica o addirittura killeraggio professionale non fa bene a un giornalismo già in balìa di cambiamenti non indolori (quanti tagli di cronisti e di poligrafici in questi mesi), di modifiche rapide e non prive di costi. E di certo non fa bene alla politica. L’aumento di gazzette e gazzettieri urlanti, in edicola o in video, è proporzionale alla nausea del popolo per le cose della polis. Un giornale troppo politicizzato e fazioso guadagna forse qualche merito alla corte del potente a cui accorda i propri disegni o di cui serve momentaneamente le ambizioni. Eccita i propri direttori e i capi, conferma il nucleo dei propri fedelissimi, ma alla lunga scontenta la stragrande maggioranza dei lettori, specie dei possibili nuovi lettori. Non credo che i giovani cerchino sui giornali le stanche puntate di telenovelas politiche o un’arena dove si massacra a turno qualcuno, specie se per motivi oscuri e sfuggenti. Non si tratta di rivendicare una illusoria 'imparzialità assoluta'. Qui si sa bene che non esiste un luogo detto 'paradiso in terra dei giornalisti'.
Non esiste un punto di vista dell’osservatore che non partecipi delle tensioni e delle possibili ambiguità del pezzo di mondo che osserva. Ma un conto è stare con franchezza e con tensione al vero nel dibattito anche aspro, un conto è invece armarsi ogni mattina per una battaglia ideologica, faziosa. I giornali, è vero, sono nati come veicolo di diffusione di idee e come strumento di intrattenimento. Ma qui si stanno mischiando le cose in modo grossolano, e tra intrattenimento e dibattito politico i confini si sono volatilizzati, con una cinica euforia da fine stagione di teatro di varietà.
Per di più, nell’enfasi di tale esercizio di diffusione delle idee, si sono persi i confini d’un altro genere di decenza, quella intellettuale. Fin dal loro sorgere i giornali avevano spesso il difetto, come denunciava il poeta Baudelaire a metà dell’800, di presentarsi come i dispensatori della felicità della gente. Come se grazie a certe idee la vita si risolvesse. Oggi lo stesso difetto divora il cuore e la faccia di taluni giornali. Sembra quasi che la salute della società dipenda dalle sorti di quella figura o di quella faccenda che il tal giornale indica come il bene o il male che ci affligge.
Come se non bastasse rendere i lettori più informati e liberi di discutere e agire. No: ci vogliono più felici, più puri, salvi. Anche il linguaggio che prima usava colorite metafore di gergo guerriero ora suona sinistro: si 'sparano' titoli, si 'fanno a fette' immagini e credibilità, si lanciano notizie-bomba (o polpette avvelenate). Ma più che a una nobile e dura battaglia di idee si sta assistendo a una guerricciòla, a una arruffata bagarre spesso per scontri di purissima, maledetta sete di potere. Quella sete che fa impazzire gli uomini e le società in un deserto, tra miraggi e immagini fasulle (anche se graficamente ben preparate).
«Avvenire» del 6 dicembre 2009

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