06 novembre 2009

Quei «professionisti» della cattiva laicità

I giudici del crocifisso (e non solo)
di Domenico Delle Foglie
C’è un peccato più grande in quella sentenza dei giudici della Corte europea di Strasburgo che hanno messo in fuori gioco il crocifisso. È un peccato di presunzione l’arrogarsi il diritto di riscrivere la storia e la cultura. Ed è, forse, l’ultimo anello (davvero l’ultimo?) di quel delirio di onnipotenza che spinge alcuni uomini e donne che vestono una qualche toga, a ritenersi i detentori di una verità che contraddice la storia e la cultura, anzi ha la pretesa di riformarle. In fondo, è la stessa tentazione che più volte, in questi ultimi decenni, ha percorso le diverse magistrature che hanno provato a mandare in soffitta, ad esempio, il diritto naturale. È già accaduto ogni volta che una scoperta scientifica ha aperto problemi di natura antropologica: sono apparsi giudici che hanno sempre e inesorabilmente agito con una presa d’atto del 'nuovo' che ha autorizzato qualunque pratica, pur in presenza di legittimi dubbi circa il rispetto dei diritti di tutti. In questi casi, irrevocabilmente, la lama della giustizia ha tagliato la realtà in favore dell’ignoto, con un omaggio incondizionato all’avanzamento scientifico e in barba a quel 'principio di precauzione' che, pure, dovrebbe animare lo spirito di chi ha il supremo compito di amministrare la giustizia.
Anche in questa occasione il passo sembra davvero molto azzardato. Qualche magistrato ritiene sia arrivato il tempo di liquidare la millenaria esperienza religiosa con una sentenza esemplare. Piccola cosa, all’apparenza, quella richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche italiane. Grande, però, il suo valore simbolico: mettere la fede dei cristiani tra parentesi e progressivamente relegarla nell’ambito privato e familiare. Quanto questo progetto sia scoperto è sotto gli occhi di tutti. E, su questo giornale, già tante parole sono state spese per rimarcarlo con straordinaria efficacia.
Qui, appunto, preme sottolineare un’altra assurda pretesa: il voler giudicare la storia e la cultura. La Corte di Strasburgo, infatti, ha aperto un varco pericolosissimo e ha riproposto una pratica che minaccia di diventare abitudinaria, in una certa Europa che sembra non avere più nulla da offrire ai propri figli (che siano traguardi da raggiungere o valori da condividere e preservare). Una pratica da Tribunale perenne della nostra storia e della nostra cultura. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano che dovrebbe ripugnare a tutte le coscienze avvertite dell’Occidente, e che trova, invece, corrivi silenzi là dove il cristianesimo è vissuto come uno scomodo compagno di viaggio, per la sua naturale inclinazione a cercare la verità, a difendere la giustizia, a costruire il bene comune. Già, sentenze come quella di Strasburgo hanno il potere di cancellare la dimensione evocativa di splendide immagini come quella del 'Tribunale della Storia', inteso come la capacità culturale di modellare, attraverso il tempo, il giudizio sui fatti degli uomini, per meglio penetrarli e spiegarli alle nuove generazioni. Il 'Tribunale della Storia' è sempre stato la riserva morale che i popoli hanno utilizzato per manifestare la propria fiducia nella capacità dell’umanità di riformarsi e di ricostruirsi, facendo i conti col proprio passato senza reticenze o indulgenze. Ma dandosi sempre il tempo necessario, perché la storia e la cultura hanno bisogno della patina protettiva dello scorrere dei giorni, per essere giudicate con criteri di giustizia.
E soprattutto con un occhio limpido, liberato dalle incrostazioni ideologiche, dagli opportunismi e dalle tentazioni egemoniche. Ora però c’è qualcuno, a Strasburgo e altrove, che è impaziente: vuole sottoporre subito a giudizio storia e cultura.
E non si ferma davanti a nulla. Sfidando i sentimenti e la naturale saggezza dei popoli, del nostro popolo. Sfidando ogni uomo o donna di fede o di buona volontà e la loro pazienza già logorata dai professionisti della cattiva laicità.
«Avvenire» del 6 novembre 2009

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