08 novembre 2009

Le coscienze che il Muro non seppe umiliare

di Gianni Riotta
Il 9 di novembre del 1989, un pomeriggio qualunque di Manhattan, reduce da un'operazione e stonato di anestetico, cercavo di distrarre mio figlio di poche settimane con la tv. Quando improvvisamente vidi passare sullo schermo i ragazzi e le ragazze beati oltre il Muro di Berlino, pensai che il chirurgo avesse esagerato col sedativo: finiva la Guerra Fredda in diretta, possibile?
Nel celebrare la distruzione del Muro, con commozione stupita per il ritorno alla libertà dei sudditi sovietici in Europa e in Russia, dimentichiamo sempre perché fu costruito, e quanto violenta e sanguinosa sia stata la Guerra Fredda, detta dallo storico Gaddis «the long peace», la pace lunga. Come racconta Frederick Taylor nel suo nuovo saggio «The Berlin Wall», il Muro divise come una piaga l'Europa per fermare l'esodo dei profughi da Est a Ovest, dal comunismo alla democrazia. Né il russo Khrušcev, né il tedesco Ulbricht, potevano lasciare questa arma alla propaganda nemica, un referendum quotidiano a provare come, con tutti i suoi difetti, il sistema occidentale fosse migliore del regime sovietico.
La Guerra Fredda fu confronto militare, dai missili atomici alla Corea, il Vietnam, l'America Latina, l'Africa, ed economico, Wall Street contro «gosplan», il kafkiano «Gosudarstvenny Komitet po Planirovaniyu», l'economia centralizzata di stato. Sfida culturale, la censura della Pravda contro il dibattito aperto da Hollywood alla Sorbona, religiosa, libertà di culto contro la repressione contro il giovane parroco Wojtyla. Di stile, l'eleganza ribelle di James Dean contro le giacche a scacchi dei burocrati a Mosca.
A far crollare il Muro contribuirono tutti i fattori, ma due su tutti. Alla fine, il sistema economico sovietico non resse i costi di un impero da Mosca a Kabul, perché produrre ogni vite, ogni scarpa, ogni mattone in Urss consumava ricchezza, non ne produceva. Con il crack economico giocò la bancarotta morale. Spesso ignorati dall'opinione liberal occidentale, i dissidenti, ortodossi come Soljenitsin, ebrei come Sharansky, progressisti come il poeta Brodsky e lo scrittore e futuro presidente ceco Havel, pagarono un prezzo tragico per non spegnere la verità. Al giudice che si accingeva a condannarlo, intimandogli: «Ma perché lei si dice poeta? Chi le ha dato la tessera da poeta?», Brodsky rispose: «Nessuno, ma se è per questo non mi han dato neppure la tessera di persona umana».
Un mondo in cui si potesse vivere decentemente e senza tessera, questo cercavano tanti a Est come a Ovest e questo il Muro provò, a lungo con crudele efficacia, ad impedire. L'Occidente si macchiò a sua volta di crimini e repressioni, dall'Indonesia al Cile, per mantenere l'equilibrio contro Mosca si alleò con dittatori senza scrupoli, da Franco alle giunte sudamericane, all'apartheid in Sud Africa. Errori e contraddizioni che non mutano l'equazione: trionfò infine il sistema più libero e giusto, più umano, capace di evolvere e maturare.
Perché crollò il Muro? Fu la vittoria dei falchi o delle colombe, di chi predicava la corsa agli armamenti o di chi invece suggeriva di dialogare con l'Urss, contenendola con il «soft power»? La soluzione nel volume The hawk and the dove, il falco e la colomba, con il saggista Nicholas Thompson a ragionare su Paul Nitze e George Kennan, il primo a lungo persuaso che solo i missili potessero salvare la democrazia, il secondo convinto, già dal celebre telegramma che inviò a Washington da Mosca nel 1946, che ci si dovesse limitare a «contenere» l'Urss nei suoi confini. La verità storica prova che fu l'incrocio di falchi e colombe a finire l'impero sovietico. La pressione costante della corsa agli armamenti ne sfiancò i bilanci, mentre il benessere e la cultura che crescevano in Occidente logorarono la propaganda del Cremlino. Leader dallo sguardo acuto, Kennedy, Reagan, Giovanni Paolo II, ebbero la visione di credere che il Muro potesse cadere e incoraggiarono gli eroi dell'Est, dallo sfortunato Dubcek di Praga '68 all'affascinante Havel, allo schietto operaio Walesa. Gorbaciov non potè che far da notaio alla resa.
L'Europa occidentale ha meno glorie. Mitterrand in Francia, la Thatcher a Londra e da noi Andreotti, guardarono la caduta del Muro con scetticismo misto a preoccupazione. «Amo tanto la Germania da preferirne due» ripeteva il premier democristiano con una delle sue battute. L'amore per l'America, e la prudenza verso l'Unione Europea, che ancora animano l'Est hanno radici in questi machiavellismi. Al Pci, il ritardo nell'ammettere la debacle del Muro è fatale. Impressiona leggere sul quotidiano Il Riformista le memorie del parlamentare ex Pci Ranieri, che ricorda un Berlinguer persuaso, quasi in fondo, «solo dei tratti illiberali» del mondo socialista, e di intellettuali come il grecista Canfora che, venti giorni prima della libertà a Berlino, ancora esaltano la Germania Est «antifascista e non capitalista».
Quanto al leader russo Putin la sua gelida posizione è nota: «La fine dell'Urss fu la peggiore tragedia geopolitica del secolo», immaginiamo dunque come giudichi la fine del Muro che la innescò.
Dal 1989 il mondo è mutato con rapidità impensabile, un macinino Trabant dell'Est che si trasforma in Ferrari. La globalizzazione, tanto vituperata, ha sfamato e arricchito miliardi di persone. Cina, India e Brasile sono potenze, il fondamentalismo islamico è il nuovo nemico della libertà, l'economia passa dal boom di Clinton al crack di Lehmann, la democrazia viene di nuovo umiliata a Guantanamo e Abu Ghraib.
La Storia non è finita sotto il Muro di Berlino, come temeva nell'89 il filosofo Fukuyama. Riguardando la felicità di quel giorno, ora che mio figlio studia oltre la vecchia Cortina di Ferro, la lezione è chiara, senza confusione. I valori di libertà e democrazia, che non sono monopolio d'Occidente come insegna Amartya Sen, vincono solo se sorretti insieme da falchi e colombe, se la ragione non è imbelle e la forza non è cieca, se Nitze e Kennan convivono in noi. Se nessuno si arroga la distribuzione di «tessere da persona umana» e se, come la folla che a Praga durante la Rivoluzione di Velluto festeggiava in piazza la libertà suonando felice «I'm waiting for the Man» della banda rock Velvet Underground, anche noi non ci stancheremo, nel mondo nuovo, di aspettare gli uomini e le donne, tutti.
«Il Sole 24 ore dell'8 novembre 2009

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