08 novembre 2009

Il Muro non cadde all’improvviso: lo spirito dell’89 contro i nuovi muri

La prima picconata da Solidarnosc nel 1980. Oggi diffidenze verso l'est
di Luigi Geninazzi
Nel clima festoso d’immagini, ricordi ed emozioni che in questi giorni dilagano per il ventennale della caduta del Muro di Berlino la storia, sovraccarica di simboli, tende inevitabilmente a scivolare nel mito. La sconfitta del comunismo, la fine della divisione tra Est ed Ovest, l’inizio di un mondo nuovo, tutto questo sembra sia accaduto improvvisamente in quella notte magica del 9 novembre 1989. L’impressione è che l’odiosa barriera di cemento e di filo spinato sia svanita di colpo, come fosse di cartapesta. Vale la pena ricordarlo soprattutto alle giovani generazioni, a coloro che non c’erano.
Il Muro non è caduto in un giorno. È stato abbattuto nel corso di lunghi anni da tanta gente cocciuta e coraggiosa, che ha sfidato un potere illiberale e repressivo a mani nude e con il cuore sgombro dall’odio e dalla violenza. Non sono stati i colpi di piccone che oggi rivediamo nelle foto d’archivio a far cadere il Muro di Berlino. La prima breccia venne aperta nel 1980 sul litorale baltico da Solidarnosc. Il sindacato polacco non s’ispirava a qualche rivoluzionario di professione, bensì a Giovanni Paolo II, il Papa che l’anno precedente si recò in patria proclamando l’unità spirituale del continente, al di là delle divisioni politiche e ideologiche tra Est ed Ovest.
Nacque così un movimento di popolo, la cui spinta verso la libertà contagiò le altre nazioni dell’Europa centro­orientale. Compresa la Ddr di Honecker, il capomastro del Muro che, a suo avviso, « sarebbe durato un secolo » , come affermò all’inizio del 1989, l’anno in cui, con un sorprendente effetto domino, i regimi comunisti caddero a Varsavia, Budapest, Berlino, Sofia, Praga e infine Bucarest.
Fu la primavera dei popoli dell’Est Europa. I leader politici, a cominciare da Gorbaciov, il leader sovietico della perestrojka, non ne furono gli autori, ma ebbero il grande merito di non soffocarla. Come ha detto recentemente l’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl, « il cambiamento non è venuto dal cielo, anche se il cielo ci ha aiutato » . A distanza di vent’anni il suo orgoglio è più che giustificato. Il 1989 ha messo fine al secolo breve, caratterizzato dalla « guerra civile europea » , al cui centro c’erano sempre i tedeschi. L’incubo di un’Europa germanizzata ha lasciato il posto ad una Germania pienamente europea. Il Vecchio Continente ha spalancato le porte ai nuovi Paesi dell’Est, tornati finalmente a casa dopo mezzo secolo di esilio sotto il dominio sovietico. Il 9 novembre non è solo la festa della Germania, ma di tutta l’Europa, rinata nella libertà. Un grande successo, con qualche ombra.
A dispetto del Grande Crollo, vediamo in giro nuovi muri. Non sul terreno, dentro le teste. C’è un muro invisibile di reciproca diffidenza che in Germania divide ancora gli « Ossi » , i cittadini dell’Est, dai « Wessi » , gli occidentali, mentre si rafforza il partito degli ex comunisti. C’è un muro di pregiudizi che attraversa l’Europa ogni volta che si parla d’immigrazione, anche quando non è extra- comunitaria, ma proviene da Paesi ormai entrati nell’Unione Europea. E c’è un muro di vera ostilità che separa la Russia dalle Repubbliche ex sovietiche, come l’Ucraina e la Georgia, segnata da una sanguinosa guerra con Mosca.
A distanza di vent’anni è più che mai necessario tornare allo spirito dell’ 89.
Quello richiamato nella sua recente visita a Praga da Benedetto XVI, secondo cui, se la dittatura era fondata sulla menzogna, « oggi la libertà ha bisogno di essere costruita sulla verità » .
«Avvenire» dell'8 novembre 2009

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