30 settembre 2009

Occidente, il tempo del silenzio

Parla lo psichiatra Eugenio Borgna: «Le emozioni più profonde dell’uomo oggi sono travolte dalla fretta e dal cinismo»
di Marina Corradi
Lo psichiatra e scrittore Eugenio Borgna dedica il suo ultimo sag­gio (Le emozioni ferite, Feltri­nelli) alle emozioni. Che sono, scri­ve, «anche portatrici di conoscenza: di una conoscenza che ci trascina nel cuore di esperienze di vita irraggiun­gibili dalla conoscenza razionale». Già questa chiave, di una conoscen­za attingibile al di fuori della pura ra­zionalità, colpisce.
Ma, professore, perché le emozioni di cui lei parla sono «ferite»?
«Perché – spiega Borgna – le emo­zioni più profonde e luminose del­l’uomo oggi rischiano di essere tra­volte dalla fretta e dal cinismo. Fan­no “perdere tempo”, non sono pro­duttive, interrompono quella mac­china micidiale per cui bisogna “rea­lizzare”, senza fermarsi a riflettere. E­mozioni ferite sono spesso quelle dei più giovani, bruciate dal cinismo che colpisce chi voglia uscire dagli argi­ni della razionalità tacitamente im­posti dagli adulti».
Occorre dare voce alle emozioni in­teriori. Lei scrive che le parole tut­tavia possono essere «soglie pietri­ficate » oppure «scialuppe» che sal­vano. Quando e quali parole sono strumento di salvezza?
«Ci sono parole che affollano le no­stre giornate, ma esprimono unica­mente le nostre individuali istanze, e diventano solo cascate di rumore. Le parole creative invece sono quelle che nascono in noi dall’urgenza di dire ciò che siamo, dentro a una re­lazione: e dunque parole tese all’al­tro. Parola che salva è solo quella che tende all’altro. Solo questo accento divide le parole terrificate da quelle che liberano. Poi, per fondare una re­lazione autentica, la relazione deve essere il più possibile simmetrica. La asimmetria fra il dolore e la gioia in chi parla e in chi ascolta va resa me­no aspra nel com-patire, nel condi­videre la sofferenza».
Lei parla, nel libro, di silenzio. An­che il silenzio può essere un dialogo?
«Esistono tanti tipi di silenzio. E c’è un silenzio interiore da cui nascono parole che di questo silenzio porta­no il sigillo, inteso come timbro di immediata intuizione, di contem- plazione dell’essenziale. Nel silenzio contemplativo è possibile cogliere ciò che è essenziale dire a chi ci a­scolta ».
Come maestra di silenzio lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta ad Auschwitz che ha lasciato le sue in­tense «Lettere» e il «Diario». La Hil­lesum che scriveva, mentre il nazi­smo attorno a lei dilagava: 'In me c’è un silenzio sempre più profon­do. Lo lambiscono parole che stan­cano, perché non riescono a espri­mere nulla”».
«Sono stato folgorato da Etty Hille­sum. Ciò che ci ha lasciato rimanda a quell’infinito che possiamo coglie­re solo se sfuggiamo alla ghigliottina della fredda analisi razionale, a quel­l’infinito che possiamo vivere solo se non lo riduciamo a qualcosa di cal­colabile in senso positivistico. È l’in­finito leopardiano, che fa cogliere un’altra immagine della realtà: come se le ragioni del cuore aprissero oriz­zonti più ampi di quelli della ragio­ne calcolante'».
La Hillesum scrive di un «pozzo mol­to profondo» che avverte in sé, a cui attingere, ma che spesso è «coperto da sabbia e sassi». L’infinito abita in noi?
«“In interiore homine habitat veri­tas”, dice Agostino. Dentro ciascuno di noi esistono fonti inesauribili di a­more e solidarietà. Fontane sorgen­ti, coperte però dai detriti dell’abitu­dine, della fretta, della incapacità del­la preghiera. Perché la preghiera in cosa consiste se non in parole riem­pite di silenzio, che ci immettono in un dialogo infinito, in sterminati o­rizzonti? Il pozzo è in noi, colmo di acqua freschissima; ma è contami­nato dalla paura di guardare dentro di noi».
E come si fa, a ritrovare questo poz­zo?
«Se crediamo in certi orizzonti di sen­so, con fatica possiamo cercare di a­deguarci alle nostre perdite, alle no­stre sconfitte, in una prospettiva se si vuole anche mistica: che allarga i­stantaneamente i confini della no­stra capacità di partecipare il senso del vivere e del morire. Occorre dun­que ascoltare fino in fondo noi stes­si, anche nel dolore e nella sconfitta. E ascoltare le parole della grazia – poi­ché tutto è grazia infine, come scri­veva Bernanos».
Etty Hillesum nel lager trova co­munque, prodigiosamente, la gioia. Semplicemente in «uno spicchio di cielo». Che cos’è questa gioia, pro­fessore – vorremmo dire quasi, «che roba» è?
«La gioia di Etty Hillesum è la spe­ranza incarnata. La speranza, in sé, è qualcosa che ancora non c’è, pur già illuminando il futuro. La gioia di cui parliamo invece è speranza già in at­to, che prescinde dalle tre dimensio­ni agostiniane del tempo, passato, presente, futuro. La gioia vive in un presente che Agostino chiama eter­nizzato. Mentre la felicità ha bisogno di presente e di futuro, la gioia nel suo presente eternizzato cancella an­che le impronte della morte».
Don Giussani parlò in un suo libro di «istante consistente».
«Appunto: pur essendo il presente i­nafferrabile, l’istante consistente, il presente della gioia diventa la som­ma misteriosa, ma aperta all’infini­to, di ciò che siamo. Quando mesi fa all’isola di San Giulio ho assistito al “sì” di una giovane benedettina, cui il vescovo chiedeva se era pronta a lasciare tutto, ho colto nei suoi occhi abissi di grazia e di mistero, in una gioia e una apertura all’infinito che le parole non bastano a descrivere».
La gioia come speranza incarnata. Ma, professore, la speranza incar­nata per i cristiani è Gesù Cristo...
«È come se in particolari occasioni, per grazia, potesse essere dato a un essere umano la percezione di que­sta speranza incarnata. La grazia del­la gioia piena: per cui Etty Hillesum in partenza per Auschwitz vede infi­ne squarciarsi le tenebre e la morte».

«Avvenire» del 30 settembre 2009

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