La denuncia di Ciliga fra censure rosse e brune
di Dario Fertilio
Un filo invisibile - l’oscura maledizione dei grandi - sembra collegare tra loro Vasilij Grossman e Ante Ciliga. Infatti il capolavoro romanzesco del primo, Vita e destino, proprio come i ricordi autobiografici del secondo (Nel paese della Grande Menzogna, Jaca Book, pp. 455, 35) sono dedicati all’Unione Sovietica. Molto diverse, però, le ambientazioni, dal momento che Vita e destino racconta con toni epici la battaglia di Stalingrado, mentre Ciliga descrive le sue drammatiche esperienze personali, avvenute fra il 1926 e il 1935, in un’area immensa compresa fra gli Urali e l’Oceano Pacifico, il Cremlino e l’arcipelago gulag. Li accomuna però una cosa: l’odio parallelo, e istintivo, che i loro libri finirono per suscitare fra i nazionalsocialisti come tra le fila dei bolscevichi. E non solo a causa del patto siglato nel ‘39 fra Molotov e Ribbentrop, ma anche perché le affinità fra i due sistemi, attraverso le loro descrizioni, balzano agli occhi del lettore. Quando Grossman dipinge la logica sovietica applicata alla difesa di Stalingrado, sembra che stia parlando anche di quella nazista. E quando Ante Ciliga svela i retroscena delle lotte di potere in corso nell’Urss, sottolineando le affinità esistenti fra i due mortali nemici, Stalin e Trotzkij, pare fotografare i regolamenti di conti interni alle gerarchie hitleriane. Il prezzo pagato da entrambi fu la censura, ma quella che subì Ciliga risultò ancora più paradossale. Nel Paese della Grande Menzogna avrebbe dovuto essere pubblicato in Francia nel 1940, e fu l’arrivo delle Panzerdivisionen hitleriane a provocare la sua inclusione fra i libri proibiti: i nazisti si preoccuparono di togliere di mezzo la denuncia degli orrori sovietici che poteva ricordare troppo da vicino i loro stessi mali. Destino ironico, quello di Ante Ciliga. Idealista e refrattario alla menzogna, marxista fino all’ultimo ma nemico della dittatura, mitteleuropeo portato a sentirsi a casa dovunque, da Trieste a Leningrado, letteralmente «consumato dalla curiosità per ogni cosa esistente al mondo», incarnò un tipo umano novecentesco inconfondibile, ma presto destinato a diventare sgradito, anzi intollerabile. Così si spiega perché lui, istriano di nascita, cittadino prima austriaco, poi italiano, jugoslavo, di nuovo italiano, abbia viaggiato da Mostar a Praga, Budapest, Zagabria, Vienna, Mosca, Irkutsk, Milano, Trieste, animato da una sete inestinguibile per la politica, ma sempre senza pace. Solo oggi, nel pantheon dei grandi eretici novecenteschi, può trovare riposo.
Corriere della Sera» del 18 gennaio 2008
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