30 gennaio 2008

L’abilità di sparute minoranze: egemonizzare i ceti intellettuali

Sempre più chiaro che laicità non vuol dire modernità
dDi Luca Diotallevi
Minimizzare la crisi della nostra comunità nazionale non è più un fatto di prudenza, ora è divenuta un’imprudenza. Da Napoli a Roma, non ce la facciamo più a mantenere lo spazio pubblico sgombero da immondizia e ideologia.
La situazione è tanto grave da far sì che la sanzione pubblica delle responsabilità politiche individuali, pur necessaria, non sia neppure la cosa più urgente. Ci sono piuttosto alcune cose che dobbiamo dirci alla svelta. Tra queste c’è che Laïcité e modernità non coincidono. La modernità è istanza di differenziazione, è istanza di relazione e di responsabilità fondate sulla distinzione tra diversi ambiti e codici sociali: ma la laïcité è una pessima risposta a questa istanza.
La laïcité non è distinzione né relazione, ma pretesa da parte della politica di egemonizzare lo spazio pubblico, perseguendo il progetto di una sovranità assoluta per cui 'pubblico' si riduce a 'statale'. Una sovranità che si esprime innanzitutto su ogni forma di legge e di diritto, tutto riducendo alla legge dello stato.
La laïcité non è distinzione né relazione, perché prima ancora che pretesa di negare dignità pubblica al fenomeno religioso, è pretesa di asservirlo ai propri scopi. Non si dimentichi che radici importanti della laïcité sono nell’eresia 'gallicana' e nelle politiche giacobine di sottomissione del clero al servizio dello stato. La laïcité è il culto fondamentalista di una ragione assoluta che vuole giungere ad imporre persino credenze e riti propri, è quella ' seculocracy' ostile al cristianesimo, al sapere critico ed alla democrazia liberale. La laïcité non è distinzione né relazione, perché è negazione del passato e delle radici storiche: utopia pericolosa dell’autofondamento. Insomma, la laïcité non è modernità, perché la modernità non è solo né innanzitutto giacobinismo.
La modernità è anche quella, teoreticamente meno incoerente e ormai quantitativamente prevalente, della religious freedom, è quella che vive nei regimi di libertà religiosa (come quelli anglosassoni, certo, ma anche in contesti come quello italiano in cui la costituzione sancisce la pluralità degli ordinamenti). È la libertà delle società in cui 'pubblico' non è sinonimo di 'statale', dove lo spazio pubblico è variegato perché pubbliche sono politica e scienza, religione, economia e famiglia; società in cui il reciproco limitarsi delle istituzioni nega ogni monopolio e desacralizza ogni potere. Quella della libertà religiosa è la libertà di società in cui la legge ed il diritto non sono solo quelli dello stato, ma innanzitutto quelli delle persone (common law).
In questi regimi, istituzioni religiose e politiche non si minacciano assoggettamenti né si risparmiano critiche. Mentre per la laïcité il 'muro di separazione' tra religione e politica coincide con quello tra privato e pubblico, nei regimi di libertà religiosa quel muro corre attraverso lo spazio pubblico, come il muro che separa politica da economia.
Nella coscienza di queste società non è negata la memoria. La coscienza storica ricorda invece che le radici permanenti delle società aperte stanno anche nelle tradizioni ebraico-cristiane. La Chiesa cattolica, dal canto suo, ha dato voce col Concilio a questa responsabilità per la libertà religiosa, sancendo nella Dignitatis Humanae i principi insieme cristiani e moderni del 'non obbligare, non impedire' e della distinzione tra diritto e morale.
Non smettiamo di parlarci perché la gravità del momento non risiede nel fatto che la opinione pubblica italiana abbia dubbi sul valore della religione, anche pubblico. Il pericolo sta nella capacità mostrata da sparute minoranze di egemonizzare i ceti intellettuali. Sarà un caso, ma ancora una volta la sconfitta della libertà accompagna la sconfitta della maggioranza.
«Avvenire» del 17 gennaio 2008

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