16 luglio 2007

Singolare requisitoria di Elie Wiesel

Cercare Dio, un fanatismo. Ma i conti così non tornano
di Davide Rondoni
Forse, per uscire dal Novecento, ci vuole meno presunzione circa Dio. E chiedere che entri
Ci sono luoghi comuni costruiti pazientemente. Con continue imprecisioni, mezze verità, continue piccole superficialità. Luoghi comuni che pretendono di inquadrare e capire la vita. Che invece sono inutili. E possono essere dannosi. Come ad esempio il luogo comune secondo cui credere in un Assoluto sia segno di fanatismo, e origine di ogni deriva violenta. Secondo tale luogo comune, l’uomo che crede in un assoluto, e quindi in Dio, è pericoloso. Ci torna su Elie Wiesel, l’ottantenne premio Nobel per la Pace, testimone degli orrori nazisti, ospite di una rassegna di incontri a Milano. In un testo anticipato ieri dal Corriere, col titolo (appunto) impreciso: le religioni e l’ombra del Male, Wiesel ripercorre la parabola della prese del potere da parte di ideologie che nel ’900 vollero farsi assolute, e conclude che anche oggi c’è il rischio del fanatismo. La cosa di per sé appare agli occhi di qualsiasi osservatore abbastanza scontata. Il rischio di fanatismo fa sempre parte della natura umana. Però Wiesel accusa le religioni d’esser culla del fanatismo. E però, si contraddice. Infatti, costruisce il suo discorso a partire da una questione seria, ripresa da Kafka e Camus. È possibile, senza credere a un Dio, avere una fede nell’Assoluto? Per lui, come si evince dalle prime battute, Dio è infatti qualcosa di cui non si può nemmeno parlare, nascosto e inconoscibile. A cui è una specie di assurdo credere. Se uno non crede in Dio, dunque, sembra suggerire Wiesel, è escluso dal compiere qualsiasi atto in relazione a un Assoluto, a meno di compiere disastri. Wiesel ricorda che quando alcune ideologie e i suoi capi vollero trasformarsi in idoli assoluti, per milioni di uomini ne venne sventura e morte. C’è dunque, pare di capire, una esperienza dell’Assoluto per così dire corretta che è quella di chi crede in Dio, e ci può essere una maledetta malacopia, uno sventurato assolutismo idolatra. Secondo questa ipotesi, dunque, una delle migliori "medicine" contro un assolutismo malato, di uomini che si credono Dio, sarebbe proprio la fede in Dio. Questo però il Premio Nobel nel testo non lo dice. E addirittura, sorprendentemente, Wiesel (e il redattore del Corriere) fanno una specie di salto logico, di scivolamento. E con parole ben forbite ma generiche e accostando esempi da epoche storiche incomparabili, accomunano Islam, ebraismo e cristianesimo come brodo di cultura del nuovo fanatismo. Anzi, proprio la "inesorabile ricerca dell’Assoluto" sarebbe il fenomeno che muove al fanatismo che vediamo divampare in molti luoghi. E dunque ecco di nuovo la religione sul banco degli imputati. Così l’applauso della borghesia milanese che si crede illuminata è assicurato. Però i conti, nella logica e nell’analisi storica, non tornano. Il problema è il fanatismo, o meglio l’idolatria che ogni uomo può vivere nei confronti di qualcosa. Siamo in un’epoca idolatrica. La politica, il potere, il successo sono tutti idoli assoluti i cui fedeli spargono violenza intorno. Al posto di Dio, si alzano idoli di ogni tipo. Quel che Wiesel e altri ottimi luogocomunisti non si rassegnano ad accettare è che l’uomo per natura è religioso. Considerano un errore ciò che invece è secondo natura. E così fanno confusione. L’uomo cercherà sempre qualcosa che risponda alla inquietudine del senso del destino e del presente. È qui la sua dignità, e il motore di ricerca e sviluppo. In molti hanno pensato che tale fame potesse essere placata da idoli come la nazione, il sol dell’avvenire, il sesso, o il danaro. È dai tempi di Mosè che va così. Chiamano Dio quel che invece è la somma delle loro intenzioni. O di loro strategie e interessi. Non è il diritto al dubbio relativistico – come invoca Wiesel – quel che vince tale fanatismo. Anzi, il dubbio stesso, idolatrato come assoluto produce violenze simili, meno evidenti se uno non vuol vedere. Forse, per uscire dal Novecento, ci vuole meno presunzione circa Dio. E invece che lasciarlo fuori dalla porta, nell’assurdo, chiedere che entri, o cercare se per caso non sia presente. Più forte delle idolatrie e con un volto assolutamente bello.
«Avvenire» del 27 giugno 2007

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