16 luglio 2007

Meneghello, la lingua come ferita

Addio all'autore di «Libera nos a Malo», aveva 85 anni. Dal Veneto al «dispatrio» in Inghilterra (senza dimenticare l'Italia)
di Fulvio Panzeri
Il suo libro d’esordio portò aria nuova nella narrativa italiana. La sua scrittura, che tocca talvolta punte di grottesco e di ironia, ha un tono antiretorico
È stato ritrovato morto, ieri, nella sua casa di Thiene, probabilmente stroncato da un infarto. Si era trasferito lì da qualche anno, dopo il ritorno da Londra, lo scrittore Luigi Meneghello, senz'altro una delle figure più significative del Novecento letterario italiano, uno degli ultimi "grandi" del secolo scorso. Non ha chiesto, per i suoi funerali, nessuna cerimonia religiosa ma solo riti di commemorazione che si terranno venerdì a Malo, prima al Museo Casabianca e poi al cimitero con le autorità locali.
Era nato proprio a Malo nel 1922, un paese in provincia di Vicenza, che ricorre spesso nei suoi libri e che compare anche nel romanzo d'esordio, Libera nos a Malo, pubblicato nel 1963 che, con il libro successivo, I piccoli maestri, pubblicato l'anno dopo, nel 1964, è considerato uno dei "classici" della narrativa del dopoguerra, grazie anche alla peculiarità di una forma linguistica che fa uso di una lingua italiana letteraria e popolare, al contempo contaminata dal dialetto vicentino e da colte citazioni inglesi. Del resto, per sua ammissione, Meneghello non si è mai adattato alla retorica dei "generi letterari": «La mia presa di distanza dai generi letterari credo sia dipesa molto dalle circostanze - racconta a Marco Paolini, nel film-ritratto prodotto dalla Fandango - . Quando ho cominciato a scrivere ero convinto che la nostra letteratura fosse sfasata rispetto alla realtà italiana. Uscivano anche opere raffinatissime, ma mi parevano poco centrate rispetto a ciò che ritenevo davvero importante». Così il suo romanzo d'esordio risulta una vera boccata d'aria per la narrativa italiana d'allora: «Il mio primo libro prende le distanze da qualsiasi genere e contiene una mescolanza quasi carnevalesca di temi, di linee. Dopo di che, ogni volta che ho affrontato un argomento nuovo, mi sono sempre tenuto lontano dai generi prevalenti». Il gusto del grottesco e dello scavo linguistico gli permettono di raccontare attraverso il primo libro l'autobiografia di un paese , con i suoi usi, con la tipologia dei suoi personaggi, con i riti della vita sociale, un'autobiografia che copre trent'anni, dalla giovinezza dell'autore fino agli anni Sessanta. Ed è stato un gran divertimento per l'autore, tanto che lui stesso raccontava di ritrovarsi per mesi «in convulsioni di riso».
Nei Piccoli Maestri cambia il tono che considerava «un po' leggero» del libro precedente e ci racconta la "sua" guerra partigiana, in un'ottica assolutamente antiretorica e molto lontana dalla memorialista sulla Resistenza fino ad allora pubblicata in Italia. Meneghello racconta l'esperienza da partigiano, i contrasti interni, le difficoltà ed il senso di inutilità causato dalla scarsa operatività delle formazioni partigiane: «Nel secondo libro,ho cercato soprattutto di evitare il tono solenne, l'esaltazione dell'eroe, ma senza spirito polemico o intenti programmatici di sorta. E così anche per gli altri libri che sono seguiti». Tra questi ricordiamo Pomo Pero (1974), Fiori Italiani (1976), Bau-sète (1988), Il Dispatrio (1994) che riferiscono sempre frammenti della memoria e della vita quotidiana vissuta dall'autore. Pur essendo legato alle proprie radici venete, Meneghello decide di «vivere fuori dalla madrepatria». E si scopre scrittore, anzi «uno che scrive dei libri», come si definiva lui stesso, in Gran Bretagna, quasi sedici anni dopo essere giunto a Reading, nel 1947, con una borsa di studio del British Council. Era appena laureato, voleva studiare filosofia contemporanea inglese. Doveva restarci soltanto dieci mesi e «invece, dall'ottobre del 1948, mi sono trovato impiegato all'università». Quello del "dispatrio" è quindi un altro grande tema della sua avventura letteraria, che non gli ha mai creato fratture con la patria d'origine, anzi, si è rivelata per lui un'opportunità di salvezza rispetto alla propria idea di scrittura. Così spiega l'invenzione di questo termine: «Ho usato questa parola, "dispatrio", ed è ciò che ti capita se oltre all'espatrio, al l'uscita fisica dalla tua patria, ti senti anche cambiare dall'interno, sotto certi profili abbastanza basilari e centrali della tua vita. Il "dispatrio" c'è stato, sono vissuto a lungo lassù. Tutta la mia vita adulta, si è svolta in Inghilterra. Ho sempre lavorato là, non ho mai fatto parte di una università italiana. Non mi sono mai sentito a disagio: un italiano radicatissimo in Italia, totalmente italiano, privo di qualsiasi problema di identità». Come la sua opera dimostra appieno, nel senso vivo di un'apertura totale al mondo e alla variazione ricchissima del linguaggio. Scriveva Meneghello:«Ci sono due strati della personalità di un uomo; sopra le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto», ma che Meneghello ha saputo vivere intensamente nella propria scrittura.
«Avvenire» del 27 giugno 2007

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