09 luglio 2007

Quella distanza fra cultura «eroica» e società reale

Dopo l’intervento di Galli della Loggia sulla «tradizione rivoluzionaria italiana»
di Aurelio Lepre
Forse i problemi della violenza nella cultura politica e nella società italiane (pur senza negare i rapporti tra l’una e l’altra) andrebbero considerati distintamente. Mi sembra innegabile che essa si sia manifestata in tutte le culture politiche (compresa quella che ha avuto un peso decisivo nella mia formazione, il comunismo gramsciano) e che abbia portato alla creazione di miti che hanno esercitato una rilevante influenza (ma soltanto su alcuni strati sociali e in particolare sulle «minoranze eroiche»). Anche quella risorgimentale diede vita a generazioni di bardi e di celebratori della guerra e della rivoluzione nazionale, che predicavano l’odio al nemico, esterno e interno. Anche il Risorgimento diede origine a forze che nell’Italia unitaria si manifestarono come «antisistema» e che si nutrirono, tanto per ricordare un nome, del pensiero di Mazzini. Il Risorgimento alimentò pure il mito della «rivoluzione mancata», da Pasquale Villari, che lamentò l’assenza di una «lotta lunga e sanguinosa», che avrebbe potuto fare nascere «una generazione nuova, agguerrita, capace di governare e condurre il nuovo Paese», a Gobetti. E non dimentichiamo il «bagno di sangue» auspicato da Francesco Crispi, indispensabile per «fare» definitivamente gli italiani. Ma non ci fu nemmeno questo, almeno fino al 1915. Anche il «biennio rosso» (1919 e 1920) è stato visto e ricordato come una rivoluzione mancata: in quegli anni le contrapposte culture nazionalfascista e socialista - e non soltanto nella tendenza comunista, ma anche in quella, nettamente maggioritaria, che non seguiva Turati - proclamarono la necessità della violenza rivoluzionaria, che però a sinistra rimase allo stato di recitazione e di manifestazioni episodiche e servì soltanto a provocare una forte e diffusa reazione di paura. E questo si potrebbe dire anche per ciò che successe nel ‘68. Se all’incredibile violenza verbale di quegli anni avesse corrisposto soltanto la decima parte di violenza reale, l’Italia ne sarebbe uscita completamente distrutta. Mi pare insomma che ci sia sempre stato un notevole scarto tra linguaggio e azione. Non nego, naturalmente, che tra l’uno e l’altra ci siano nessi importanti, da analizzare volta per volta, ma mi sembra indubbio che tra la dose di violenza manifestata nella sfera culturale (e nelle cosiddette «minoranze eroiche») e quella che si è realmente verificata a livello di massa sia riscontrabile una corposa differenza, qualitativa e quantitativa. In fondo, i miti della rivoluzione incompiuta o mancata sono nati proprio dal fatto che, alla fine di periodi che sembravano poter essere rivoluzionari, risultava sempre che essa doveva essere quanto meno rinviata, perché la maggioranza della popolazione non l’avrebbe accettata. È successo anche per quella parte della Resistenza che si batté sperando in un completo rivolgimento della società e che nel 1945 dovette abbandonare le armi, non soltanto per ragioni di politica internazionale, ma pure e soprattutto perché pochissimi - soltanto, appunto, una «minoranza eroica» - sarebbero stati disposti a proseguire la guerra sotto forma di rivoluzione (come avvenne, invece, in Grecia). Il «fondo di violenza duro e tenace» di cui ha parlato Ernesto Galli della Loggia è soprattutto culturale e su questo piano bisognerebbe muoversi, sostituendo sempre la discussione alle dichiarazioni troppo bellicose. Non mi riferisco tanto ai dibattiti tra gli storici, che dubito abbiano un peso effettivo sugli orientamenti dell’opinione pubblica, quanto alle polemiche tra politici, organi di stampa e tv, con la rinuncia a ogni forma di spettacolarizzazione. Mi rendo conto che oggi è difficile trovare ascolto se non si grida o si irride, ma lasciamo che lo facciano i comici. Se no, tra qualche decina di anni - quando, come è sperabile, ciò che stiamo vivendo potrà essere analizzato con sufficiente distacco - rischieremo di apparire un tantino comici anche noi, politici, giornalisti e cosiddetti intellettuali.
« Corriere della Sera» del 21 maggio 2007

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