08 luglio 2007

Mediterraneo: il confine dell’«alleanza di civiltà»

La costa settentrionale del «mare interno» ha una coscienza differente da quella della costa che sta di fronte. Ai nostri giorni le due rive non hanno in comune che le loro insoddisfazioni. Il mare stesso assomiglia sempre di più a una frontiera che si estende da Levante a Ponente per separare l’Europa dall’Africa e dall’Asia Minore. Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono prese al di fuori di esso o senza di esso: ciò genera frustrazioni e fantasmi. Nell’Unione europea disomogenea e forse non ancora preparata a un significativo allargamento, sono entrati diversi Paesi dell’«altra Europa». L’Unione ha dedicato a quest’ultima tutta la sua attenzione e i propri potenziali politici, economici e di altra natura. L’Europa continentale ha finito con il trascurare persino il proprio Mezzogiorno.
Di Predrag Matvejevic
A cosa serve ribadire, rassegnati o esasperati, le aggressioni che continua a subire il nostro mare? Nulla tuttavia ci autorizza a farle passare sotto silenzio: degrado ambientale, inquinamenti sordidi, iniziative selvagge, movimenti demografici mal controllati, corruzione nel senso letterale o figurato,mancanza di ordine e scarsità di disciplina, localismi, regionalismi, e molti altri «ismi»La Conferenza di Barcellona del 1995 aveva acceso grandi speranze, ma si è risolta in un fallimento. Concetto chiave era il «partenariato»: ebbene, ora, dopo tanti fallimenti, è necessario riflettere quale «partenariato» sia realistico. Scambiando i desideri per realtà non si aiuta chi ne ha bisogno, ma si distruggono le speranze e si alimentano le d delusioni

L'immagine che offre il Mediterraneo non è affatto rassicurante. La sua riva settentrionale presenta un ritardo rispetto al Nord Europa, e altrettanto la riva meridionale rispetto a quella europea. Tanto a nord quanto a sud, l'insieme del bacino si lega con difficoltà al continente. Non è davvero possibile considerare questo mare come un «insieme» senza tenere conto delle fratture che lo dividono, dei conflitti che lo dilaniano: oggi in Palestina, ieri in Libano, a Cipro, nel Maghreb, nei Balcani, nell'ex Jugoslavia, riflessi delle guerre più lontane, quelle in Afghanistan, quella ancora più vicina, in Iraq.
Il Mediterraneo conosce ben altri conflitti tra la costa e l'entroterra.
L'Unione europea si è compiuta, fino a qualche tempo fa, senza tenerne conto: è nata un'Europa separata dalla «culla dell'Europa». Come se una persona si potesse formare dopo essere stata privata della sua infanzia, della sua adolescenza. Le spiegazioni che se ne davano, banali o ripetitive, non riescono a convincere coloro ai quali sono dirette. Non ci credono neanche quelli che le propongono. I parametri con i quali al nord si osservano il presente e l'avvenire del Mediterraneo non concordano con quelli del sud. Le griglie di lettura sono diverse. La costa settentrionale del «mare interno» ha una percezione e una coscienza differenti da quelle della costa che sta di fronte. Ai nostri giorni le rive del Mediterraneo non hanno in comune che le loro insoddisfazioni. Il mare stesso assomiglia sempre di più a una frontiera che si estende da Levante a Ponente per separare l'Europa dall'Africa e dall'Asia Minore. Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono prese al di fuori di esso o senza di esso: ciò genera frustrazioni e fantasmi [...].
Le coscienze mediterranee si allarmano e, ogni tanto, si organizzano. Le loro esigenze hanno suscitato, nel corso degli ultimi decenni, numerosi piani e programmi: le carte di Atene, di Marsiglia e di Genova, il Piano d'azione per il Mediterra neo (Pam) e il Piano Blu di Sophia-Antipolis che proietta l'avvenire del Mediterraneo «all'orizzonte del 2025», le Dichiarazioni di Napoli, Malta, Tunisi, Spalato, Palma di Maiorca, tra le tante, le Conferenze euromediterranee di Barcellona, Malta, Palermo, i Forum della società civile a Barcellona, Malta e da ultimo a Napoli (con milleducento persone presenti, provenienti da tutti i Paesi mediterranei). Simili sforzi, lodevoli e generosi nelle intenzioni, stimolati o sorretti da commissioni governative o da istituzioni internazionali, non hanno conseguito che risultati limitati.
A cosa serve ribadire, con rassegnazione o con esasperazione, le aggressioni che continua a subire il nostro mare? Nulla tuttavia ci autorizza a farle passare sotto silenzio: degrado ambientale, inquinamenti sordidi, iniziative selvagge, movimenti demografici mal controllati, corruzione nel senso letterale o figurato, mancanza di ordine e scarsità di disciplina, localismi, regionalismi, e molti altri «ismi» ancora. Il Mediterraneo non è comunque il solo responsabile di questo stato di cose. Le sue migliori tradizioni («quelle che associano l'arte e l'arte di vivere!») si sono opposte invano. Le nozioni di scambio e di solidarietà, di coesione e di «partenariato» devono essere sottoposte a un esame critico. La sola paura dell'immigrazione proveniente dalla costa sud non basta per determinare una politica ragionata.
Il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, non riesce a diventare un progetto. La costa sud mantiene le sue riserve, dopo l'esperienza del colonialismo. Entrambe le rive furono molto più importanti sulle carte utilizzate dagli strateghi che non su quelle che dispiegano gli economisti.

Tutto è stato detto su questo «mare primario» diventato uno stretto di mare, sulla sua unità e sulla sua divisione, la sua omogeneità e la sua disparità. Da tempo sappiamo che non è né «una realtà a sé stante» e neppure «una costante»: l'insieme mediterraneo è composto da molti sott oinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici. Concezioni storiche o politiche si sostituiscono alle concezioni sociali o culturali, senza arrivare a coincidere o ad armonizzarsi. Le categorie di civiltà o le matrici di evoluzione al nord e al sud non si lasciano ridurre ai denominatori comuni. Gli approcci dalla fascia costiera e quelli proposti dall'entroterra si escludono o si contrappongono.
Il Mediterraneo ha affrontato la modernità in ritardo. Non ha conosciuto la laicità lungo tutti i suoi bordi. Per procedere a un esame critico di questi fatti, occorre prima di tutto liberarsi da una zavorra ingombrante. Ciascuna delle coste conosce le proprie contraddizioni, che non cessano di riflettersi sul resto del bacino e su altri spazi, talvolta lontani. La realizzazione di una convivenza in seno ai territori multietnici o plurinazionali, lì dove si incrociano e si mescolano tra loro culture diverse e religioni differenti, conosce sotto i nostri occhi uno smacco crudele.
Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno a un solo Mediterraneo. Sono caratterizzate da tratti per certi versi simili e per altri differenti. Le somiglianze sono dovute alla prossimità di un mare comune e all'incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine. Le differenze sono segnate da fatti di origine e di storia, di credenze e di costumi. Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le ultime.
Il resto è mitologia [...].

Tanto nei porti quanto al largo «le vecchie funi sommerse», che la poesia si propone di ritrovare e di riannodare, spesso sono state rotte o strappate dall'intolleranza o dall'ignoranza. Questo vasto anfiteatro per molto tempo ha visto sulla scena lo stesso repertorio, al punto che i gesti dei suoi attori sono talvolta noti e prevedibili. In compenso, il suo genio ha saputo in ogni epoca riaffermare la sua creatività a nessun'altra uguale. Occorre perciò rip ensare le nozioni superate di periferia e di centro, gli antichi rapporti di distanza e di prossimità, i significati dei tagli e degli inglobamenti, le relazioni delle simmetrie di fronte alle asimmetrie. Non basta più osservare queste cose unicamente in una scala di proporzioni o sotto un aspetto dimensionale: possono essere considerate anche in termini di valori. Certe concezioni euclidee della geometria hanno bisogno di essere superate. Le forme di retorica e di narrazione, di politica e di dialettica, invenzioni del genio mediterraneo, sono state adoperate per troppo tempo e talvolta appaiono logore.
«Il Mediterraneo esiste al di là del nostro immaginario?» ci si domanda al sud come al nord, a Ponente come a Levante. Eppure esistono modi di essere e maniere di vivere comuni o avvicinabili, a dispetto delle scissioni e dei conflitti che questa parte del mondo vive o subisce. Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un'abitudine tenace, tanto sul litorale quanto nell'entroterra. La «patria dei miti» ha sofferto delle mitologie che essa stessa ha generato o che altri hanno nutrito. Questo spazio ricco di storia è stato vittima degli storicismi. La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l'immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non si identificano affatto. Una «identità dell'essere», amplificandosi, eclissa o respinge una «identità del fare», mal definita. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che il pensiero stesso rimane prigioniero degli stereotipi [...].
Una nuova lacerazione si è prodotta dopo tante altre: la guerra in Libano, gli hezbollah con la loro radicalità e l'Iran che annuncia apertamente la sua volontà di distruggere Israele, l'invasione militare israeliana del territorio libanese con i suoi tragici «effetti collaterali». Dobbiamo confrontarci con questi nuovi dati, su una scacchiera già piena di movimenti contraddittori e alla rmanti.
Nei dibattiti odierni sul Mediterraneo si ripropone inevitabilmente la questione della Conferenza svoltasi a Barcellona più di un decennio fa, nel 1995, con le speranze accese e le delusioni provocate dal «processo» che quell'assise aveva innescato. Da una parte si cerca di minimizzare il suo fallimento; dall'altra parte, e anche in alcuni Paesi europei, il suo insuccesso viene ingigantito. Non a caso i presidenti degli Stati della sponda meridionale del Mediterraneo hanno manifestato il loro malcontento rifiutandosi di partecipare alla riunione organizzata nella ricorrenza del «decennale del processo Barcellona».
Quale speranza fu messa in moto da quella Conferenza e quali sono oggi i motivi della delusione per i suoi effetti? La situazione del Mediterraneo nel 1995 era un po' diversa da quella di oggi. Dopo gli accordi di Oslo del 1992 le circostanze del conflitto in Medio Oriente apparivano più vicine a una soluzione positiva e durevole, in particolare per quanto riguardava i rapporti fra Israele e Palestina, trasformatisi, purtroppo, nella più dolorosa e pressoché inguaribile ferita del Mediterraneo. Si credette allora che sarebbe stato facile attutire la tensione in uno spazio più ampio di quello delle rive mediterranee. Quelle aspettative sono state disattese. Siamo stati, e siamo ancora, in misura anche maggiore, testimoni di scontri bellici, politici e religiosi, di vecchie e nuove forme di terrorismo, di razzismo, di antisemitismo, della negazione del diritto di Israele alla propria esistenza e di quella dei palestinesi al rientro nei territori occupati. Si erige un nuovo muro divisorio fra i popoli.
Nel medesimo arco di tempo, l'Europa è venuta a trovarsi di fronte al problema della propria integrazione. Nell'Unione europea disomogenea e forse non ancora preparata a un significativo allargamento, sono entrati diversi Paesi dell'«altra Europa». L'Unione ha dedicato a quest'ultima tutta la sua attenzione e i propri potenziali politici, economici e di altra natura. L'Europa continentale nella quale hanno sede le più importanti istituzioni comunitarie (Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo, Francoforte), ha finito con il trascurare persino il proprio Mezzogiorno. Ed è rimasta una possibilità o volontà davvero scarsa - e un ancor minore sostegno o coraggio - di sviluppare i progetti a beneficio delle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo stesso.
E poi c'è stato l'11 settembre 2001. Con le fiamme e la polvere delle Torri gemelle di New York si solleva una crisi di fiducia dalle dimensioni planetarie e si instaura il conseguente peggioramento dei rapporti tra l'Occidente e il mondo arabo e islamico. La situazione è precipitata e ha toccato il fondo dell'abisso dopo i sanguinosi attentati di Londra e di Madrid. [...]. Così, mentre le speranze vanno sempre più a fondo, le delusioni vengono sempre più a galla.
Anche sulla sponda meridionale del Mediterraneo la situazione è divenuta sempre più negativa. Del resto in quell'area, fin dall'inizio, il sentimento di delusione era più intenso di quello della speranza: la memoria del colonialismo e la difficoltà di superarne le conseguenze, la tensione dei rapporti fra Marocco e Algeria, lo scontro con l'integralismo islamico all'interno dell'Algeria stessa, l'arretratezza e la povertà in varie zone del Maghreb e del Mashreq, il mancato rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. Persino gli scambi fra popoli affini sull'asse sud-sud hanno avuto risultati molto inferiori a quelli che ci si attendeva. I programmi Meda, tramite i quali si voleva rafforzare il potenziale economico dei Paesi nordafricani, si sono dimostrati per lo più insufficienti o inadeguati, spesso rivolti verso obiettivi sbagliati e i mezzi dispensati non sono sempre andati a beneficio di coloro ai quali erano stati destinati. Il progetto della «Zona di libero scambio» da realizzare entro il 2010, ideata e proposta a Barcellona, si è rivelato utopistico.
Il concetto chiave presente nei documenti della Conferenza fu quello del «partenariato». Esso aveva forse, fin dall'inizio, un significato declamatorio o addirittura astratto. D'altra parte si sa che non tutti i partner entrano in gioco con la stessa posta, non tutti hanno le medesime possibilità o le stesse prospettive[...]. Sarà dunque necessario riflettere bene prima di decidere quale «partenariato» sia più adeguato, più realistico e realizzabile per i Paesi del Mediterraneo, tenendo conto della massima corresponsabilità che si può perseguire e della migliore resa che si può ottenere. Scambiando i desideri per realtà non si aiuta chi ne ha bisogno, ma si distruggono invece le speranze e si alimentano le delusioni.
Nel tentativo di ridimensionare l'immagine di insuccesso, o peggio di fallimento, della Conferenza di Barcellona, negli ultimi tempi viene messo in risalto un significato nuovo di «vicinato». Si va proclamando l'«alleanza delle civiltà» quale concetto contrapposto allo «scontro fra le civiltà», già da tempo in circolazione negli Stati Uniti. In teoria, alcune formulazioni proposte dalla Conferenza di Barcellona non sembrano avere alternative, resta tuttavia che la realizzazione di queste formulazioni può e deve fare un diverso percorso e avere una prassi di attuazione differente. Le esperienze concrete e i risultati insufficienti impongono di sfrondare i singoli progetti - e i discorsi che li hanno accompagnati - da tutto ciò che si è mostrato inefficace, retorico, e in fin dei conti, illusorio. Le speranze da sole non bastano, le delusioni non sono, non dovrebbero essere, ineluttabili.

Gli stimoli e gli impulsi ai quali sono state esposte le sponde del Mediterraneo sono stati spesso dannosi e pericolosi. E le reazioni nei loro confronti sono state raramente adeguate. Accrescere la sicurezza e diminuire la tensione, ridurre le crisi esistenti, regolare i processi di immigrazione-emigrazione, fornire maggiore aiuto ai soggetti poveri, agli indigenti, ai malati, sono tutte esig enze evidenti e indifferibili ma gli approcci per soddisfarle, come le reazioni a essi, vengono esibiti e si realizzano in maniera troppo generica o volontaristica.
Che fare, allora, per incanalare le acque verso altre direzioni, affinché i risultati siano diversi? Non ci sono risposte preconfezionate a tali domande: vanno cercate e trovate di volta in volta di fronte alle situazioni concrete, alle circostanze specifiche, alla complessità delle congiunture. «Alleanza delle civiltà»? Sì, ma a questo slogan va dato un significato autentico, perché non diventi anch'esso il pretesto per speranze irrealizzabili e per insopportabili delusioni.
Al fondo di tutto c'è l'esigenza di non abbandonare il Mediterraneo a se stesso e ai suoi demoni. Questo mare - è perfino banale ripeterlo - resta comunque lo spazio dove sono cresciute anche le altre civiltà vicine e affini, in particolare quelle islamiche [...]. L'Unione europea non dovrebbe dimenticare che il Mediterraneo è la culla della nostra civiltà. C'è forse un interesse economico prevalente nei rapporti con i Paesi europei più sviluppati, ma esistono ragioni profonde, storiche, culturali e tante altre per non lasciare il Mediterraneo a un destino che non merita. Sarebbe presuntuoso, e forse arrogante, concludere questo argomento. E un compito che spetta alla storia.
«Avvenire» del 27 maggio 2007

Nessun commento:

Posta un commento