Qualche domanda alla parte che sembra sicura di sé
di Gianni Manghetti
Nel dibattito delle ultime settimane sul costo della politica sono stati messi sotto accusa i tanti troppi privilegi dei politici, ma soprattutto è stato messa a fuoco la vera debolezza della politica: la sua incapacità decisionale.
Ma, vale la pena di chiedersi, è proprio tutta colpa della politica se non si perviene ad alcuna decisione sulle riforme essenziali per il Paese? È solo questa che deve auto-riformarsi o, invece, è anche il sindacato che dovrebbe fare altrettanto, se non di più? La domanda non sembri peregrina perché mentre all'interno del mondo politico comincia a svilupparsi nei leader più avveduti la consapevolezza dei propri limiti, nel mondo sindacale invece ci si rifiuta - a quel che appare - perfino di ammettere la propria crisi. In un chiaro tentativo di addossare la propria incapacità di farsi carico dei problemi generali solo e soltanto alla politica. «Se il sindacato corre il rischio - ha detto Guglielmo Epifani in una recente intervista al Corriere della Sera - di chiudersi sui propri rappresentati è per la lontananza della politica dai problemi reali delle persone». Confesso tuttavia di non sentirmi affatto entusiasta nel partecipare ad una discussione sulla primazia dell'uovo o della gallina. Mi parrebbe più saggio, invece, che sulle questioni più calde e irrisolte fosse adottata da parte sindacale (per limitarci quest'oggi alle responsabilità di questa parte) una strategia coerente sia con gli interessi dei propri iscritti sia con quelli del Paese. Partiamo dalla riforma delle pensioni. I sindacati insistono per l'eliminazione dello scalone - cioè l'aumento da 57 a 60 anni dell'età pensionabile - ma ove limitassero il loro accordo a tale circoscritto aspetto della riforma pensionistica certamente tutelerebbero gli interessi immediati dei propri rappresentati ma non si potrebbe dire che farebbero in tal modo gli interessi del Paese. Per contro, l'accettazione di coefficienti contributivi più in linea con l'accresciuta vita residua dei lav oratori produrrebbe effetti positivi sul bilancio pubblico, con un vantaggio collettivo. Capisco bene le obiezioni sindacali. Perché i lavoratori dovrebbero accettare una riduzione delle loro future pensioni? Perché dovrebbero avvantaggiare il bilancio pubblico? A ben vedere tali domande evidenzierebbero solo l'assenza di una strategia sindacale volta a far giocare alla complessiva spesa pubblica un effetto ridistributivo a favore delle classi meno abbienti e a favore dei lavoratori. L'accettazione dei nuovi coefficienti contributivi dovrebbe dare ai sindacati la forza per imporre al governo una revisione della politica della spesa pubblica finalizzandola non solo a premiare merito e produttività - utilizzando i risparmi derivanti dall'eliminazione degli sprechi a favore dei meno abbienti - ma anche dirigendola verso la rifondazione dello stato sociale. Che senso ha, di contro, minacciare uno sciopero generale sul contratto degli statali, cioè su una partita che riguarda un aumento indifferenziato, per lavoratori e lavativi, pari a 101 euro? Né c'è tempo da perdere. Questioni più generali incombono. I poveri - come ha giustamente richiamato l'arcivescovo Angelo Bagnasco - sono aumentati in Italia. Il sindacato non ritiene matura l'esigenza di avviare una riflessione sul fallimento delle politiche ridistributive? E non vuole tra queste cominciare a chiedersi perché nell'industria manifatturiera, in presenza di una produttività reale non esaltante, i profitti negli ultimi anni si sono accresciuti, mentre i salari reali sono rimasti pressoché fermi? E ancora: non ha forse difeso di più i lavoratori chi si è dato da fare per iniettare dosi di concorrenza nel mercato, cioè per far diminuire i prezzi, rispetto a chi, in fabbrica e fuori, ne aveva la diretta rappresentanza?
Ma, vale la pena di chiedersi, è proprio tutta colpa della politica se non si perviene ad alcuna decisione sulle riforme essenziali per il Paese? È solo questa che deve auto-riformarsi o, invece, è anche il sindacato che dovrebbe fare altrettanto, se non di più? La domanda non sembri peregrina perché mentre all'interno del mondo politico comincia a svilupparsi nei leader più avveduti la consapevolezza dei propri limiti, nel mondo sindacale invece ci si rifiuta - a quel che appare - perfino di ammettere la propria crisi. In un chiaro tentativo di addossare la propria incapacità di farsi carico dei problemi generali solo e soltanto alla politica. «Se il sindacato corre il rischio - ha detto Guglielmo Epifani in una recente intervista al Corriere della Sera - di chiudersi sui propri rappresentati è per la lontananza della politica dai problemi reali delle persone». Confesso tuttavia di non sentirmi affatto entusiasta nel partecipare ad una discussione sulla primazia dell'uovo o della gallina. Mi parrebbe più saggio, invece, che sulle questioni più calde e irrisolte fosse adottata da parte sindacale (per limitarci quest'oggi alle responsabilità di questa parte) una strategia coerente sia con gli interessi dei propri iscritti sia con quelli del Paese. Partiamo dalla riforma delle pensioni. I sindacati insistono per l'eliminazione dello scalone - cioè l'aumento da 57 a 60 anni dell'età pensionabile - ma ove limitassero il loro accordo a tale circoscritto aspetto della riforma pensionistica certamente tutelerebbero gli interessi immediati dei propri rappresentati ma non si potrebbe dire che farebbero in tal modo gli interessi del Paese. Per contro, l'accettazione di coefficienti contributivi più in linea con l'accresciuta vita residua dei lav oratori produrrebbe effetti positivi sul bilancio pubblico, con un vantaggio collettivo. Capisco bene le obiezioni sindacali. Perché i lavoratori dovrebbero accettare una riduzione delle loro future pensioni? Perché dovrebbero avvantaggiare il bilancio pubblico? A ben vedere tali domande evidenzierebbero solo l'assenza di una strategia sindacale volta a far giocare alla complessiva spesa pubblica un effetto ridistributivo a favore delle classi meno abbienti e a favore dei lavoratori. L'accettazione dei nuovi coefficienti contributivi dovrebbe dare ai sindacati la forza per imporre al governo una revisione della politica della spesa pubblica finalizzandola non solo a premiare merito e produttività - utilizzando i risparmi derivanti dall'eliminazione degli sprechi a favore dei meno abbienti - ma anche dirigendola verso la rifondazione dello stato sociale. Che senso ha, di contro, minacciare uno sciopero generale sul contratto degli statali, cioè su una partita che riguarda un aumento indifferenziato, per lavoratori e lavativi, pari a 101 euro? Né c'è tempo da perdere. Questioni più generali incombono. I poveri - come ha giustamente richiamato l'arcivescovo Angelo Bagnasco - sono aumentati in Italia. Il sindacato non ritiene matura l'esigenza di avviare una riflessione sul fallimento delle politiche ridistributive? E non vuole tra queste cominciare a chiedersi perché nell'industria manifatturiera, in presenza di una produttività reale non esaltante, i profitti negli ultimi anni si sono accresciuti, mentre i salari reali sono rimasti pressoché fermi? E ancora: non ha forse difeso di più i lavoratori chi si è dato da fare per iniettare dosi di concorrenza nel mercato, cioè per far diminuire i prezzi, rispetto a chi, in fabbrica e fuori, ne aveva la diretta rappresentanza?
«Avvenire» del 29 maggio 2007
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