17 luglio 2007

Lunga marcia senza censure

In un saggio di Sun Shuyun
di Fabio Cavalera
Alleggerire la storia dalle bugie della propaganda è difficile e pericoloso sotto regimi autoritari, specie quando vi sono di mezzo eventi eroici che sono alle fondamenta di uno Stato che nasce. La Lunga Marcia per la Cina comunista è una pietra miliare: come il nostro Risorgimento o la Resistenza, le rivoluzioni inglese, americana e francese, qualcosa che rovescia il corso della vita di un popolo e che addirittura va a condizionare molti altri popoli nel mondo, con nuovi sogni e nuove avventure. Quell’esodo lungo 12 mila chilometri, dal Sud verso l’Ovest poi al Nord della Cina, che fra il 1934 e il 1936 coinvolse le armate dell’Esercito di liberazione e che, pur decimandolo - dei 200 mila uomini e donne ne rimasero 40 mila - lo sottrasse alle campagne di sterminio del generale Chiang Kai-shek e pose le premesse per l’assalto al potere, quell’esodo ricco di sofferenza e di abnegazione è per la storiografia maoista il germe della Cina moderna. Ancora oggi il messaggio insegnato alle giovani leve è questo: se incontrate difficoltà, pensate alla Lunga Marcia. Senza quell’impresa la Cina comunista non esisterebbe. Solo che - come ogni passaggio della storia - la fuga-salvezza dalla base rossa, il soviet del Jianxi, fino all’estremo opposto nella provincia dello Shanxi, non ha e non può avere una lettura unica, un modello assoluto che nasconde per fini di apostolato le tragedie che avvennero allora, i tradimenti, le defezioni e persino le stragi di comunisti contro comunisti, gli stupri dei rivoluzionari comunisti ai danni delle rivoluzionarie comuniste del reggimento femminile indipendente. Vi fu, al di là del coraggio dei protagonisti, una feroce dinamica interna alla Lunga Marcia, sotterrata sotto una montagna di menzogne. Sun Shuyun, ricercatrice laureata all’Università di Pechino, producer della Bbc, è andata a scavare nei segreti di questo «mito fondatore», ha ripercorso ogni tappa dei 12 mila chilometri, ha scartabellato negli archivi locali e ha rintracciato 500 sopravvissuti, vecchi eroi contadini e contadine, privati o derubati delle pensioni di veterani, costretti al silenzio, eppure, lealmente e incredibilmente comunisti perché «il partito è la nostra famiglia». Li ha convinti a parlare, tracciando un racconto lucido, documentato e controcorrente. Ne è uscito un libro che in Inghilterra è stato accolto con grande successo e che ora arriva in Italia: La Lunga Marcia (Mondadori, pagine 304, 19). Un libro che non è contro la Cina ma per una Cina del terzo millennio che non abbia paura delle revisioni critiche del suo passato. La Lunga Marcia è e resta un capitolo basilare del maoismo, nel quale si fondono idealismo, fede e capacità di sacrificio di migliaia di uomini e di donne, ma in essa non vi sono solo pagine di esaltanti imprese da incorniciare nella iconografia classica. Vi sono - descritti dai testimoni - debolezze e ammutinamenti, furti e rapine, omicidi e malvagità che provocarono migliaia di morti e sconvolsero le file del movimento. Come le purghe volute da Mao nei mesi precedenti la partenza dal Jianxi, una «selezione» politica dell’Armata rossa, alla ricerca dei fantasmi della cricca antibolscevica, che si risolse in 20 mila morti. I 200 mila partecipanti sarebbero stati molti di più. E lo sarebbero stati - molti di più - anche i superstiti finali (dopo la biblica traversata), se nei due anni fra il 1934 e il 1936 le rivalità fra le correnti di pensiero del comunismo, pur con le truppe dei nazionalisti che inseguivano, non si fossero risolte in fucilazioni e torture da parte di aguzzini «invasati e drogati». Le rivela Chen, 83 anni, ex infermiere della I Armata rossa. I sospetti venivano eliminati anche con l’assegnazione «a reparti suicidi e mandati a combattere le battaglie più rischiose con tre proiettili a testa». Emerge così l’immagine sconosciuta della Lunga Marcia, depurata dalle distorsioni di una storiografia in grado di trasformare piccole e insignificanti scaramucce in epiche conquiste. Sul fiume Dadu, nel Sichuan, c’è il ponte in legno di Luding. Qui, secondo le antologie, si svolse lo scontro più eroico della Lunga Marcia. Ma non fu così. Zhu «il fabbro» era lì e dice che non vi fu alcuna resistenza da parte dei nazionalisti di Ciang Kai-shek, i quali erano in pochi e male equipaggiati: «Pioveva, i loro fucili erano vecchi e non sparavano più in là di qualche metro. Non potevano tenere testa all’Armata rossa... furono presi dal panico e scapparono». Parole che ricevono conferma da un generale, Li Jukui: «Non fu un’azione come la si è fatta diventare più tardi. Quando si indagano i fatti, occorre rispettare la verità». I grandi della storia hanno il coraggio della verità. Deng Xiaoping, in un editoriale su Stella Rossa, rivista comunista, l’11 novembre 1934 dimostrava già la sua tempra. Scriveva: «In questi ultimi giorni la nostra disciplina è stata scarsa... il popolo non ascolta i nostri bei discorsi, guarda come ci comportiamo. Un esercito senza disciplina non ne conquisterà la simpatia e l’appoggio». Un editoriale che Sun Shuyun ha ripescato dal diario di Tong Xiaopeng, partecipe nel quartiere generale del primo corpo dell’Armata Rossa. Un editoriale che la storia ufficiale ha sempre nascosto. Ma per fortuna non cancellato. Ed è oggi un particolare importante che svela l’altra faccia, quella che non piace alla propaganda, della Lunga Marcia.
«Corriere della sera» del 3 luglio 2007

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