16 luglio 2007

È l’invidia che cambia il mondo

Per i padri della Chiesa era un peccato mortale. Ora la pubblicità la sdogana e ne fa un sentimento glamour
Di Marco Belpoliti

Perché lui sì e io no? Questa è la domanda principale, forse la sola, che gli invidiosi si pongono. Secondo il filosofo Slavoj Žižek l'invidia è qualcosa di più, o di meno, del desiderio di possedere quello che ha l'altro - ricchezza, amore, potere -; è un «negativo»: impedire all'altro quel possesso. Il filosofo sloveno racconta una storiella emblematica. Una strega dice a un contadino: «Farò a te quello che vuoi, ma ti avverto, farò due volte la stessa cosa al tuo vicino!». E il contadino con un sorriso furbo le risponde: «Prendimi un occhio!». Žižek, sulla scorta di Lacan, sostiene che il vero opposto dell'amore di sé egoistico non è l'altruismo, la preoccupazione per il bene comune, bensì l'invidia - o il risentimento, suo fratello gemello - «che mi fa agire contro i miei interessi». Sant'Agostino in un passo famoso delle Confessioni racconta di un bambino invidioso del proprio fratello che succhia dal seno materno: «non parlava ancora e già guardava livido, torvo, il suo compagno di latte». Secondo la teoria lacaniana ciò che muove gli uomini è il desiderio dell'Altro: il bambino che invidia il fratello non invidia il fatto che l'Altro possieda l'oggetto desiderato - il seno materno -, bensì il modo in cui l'Altro può godere di questo oggetto; per cui non gli è sufficiente ottenerne il possesso, deve invece distruggere la capacità del suo compagno di godere dell'oggetto stesso. Secondo Žižek, che scrive dell'invidia in un breve saggio, questo sentimento perverso va collocato nella triade composta da invidia, avarizia e melanconia, tre forme del non essere in grado di godere dell'oggetto, e al tempo stesso di godere di riflesso di questa stessa impossibilità.

L'invidia è oggi considerata un peccato sociale, più grave della gelosia stimata invece un peccato veniale, una sorta di sgradevole accompagnamento della passione. Lo psicoanalista Leslie H. Faber sostiene che se l'invidia è un sentimento a due attori, la gelosia è a tre: io, lei e lui. Faber considera la gelosia più devastante sul piano dei rapporti personali perché riunisce in modo ossessivo sulla scena parti sempre più vaste della realtà spingendo il dramma verso una sicura rovina come raccontano innumerevoli romanzi e film. In realtà, l'invidia è molto più temibile della gelosia. Hannah Arendt in un passo di un suo straordinario scritto degli anni Sessanta, Alcune questioni di filosofia morale, parla della malvagità umana e degli scrittori che ci hanno lasciato alcuni ritratti di grandi malvagi. Questi grandi della letteratura (Shakespeare e Melville) non ci dicono molto sulla natura del male, tuttavia ci fanno capire come nella profondità dei personaggi più malvagi delle loro pagine - Iago di Otello e Claggart di Billy Budd - «troviamo sempre la disperazione associata alla sua inseparabile compagna: l'invidia». Che il male radicale provenga dalla disperazione, prosegue la Arendt, lo aveva già detto Kierkegaard, ma è proprio l'invidia a farci riflettere. Intorno al grande malfattore circola sempre un'aura di nobiltà, tuttavia Iago e Claggart, scrive la Arendt, commettono il male per invidia nei confronti di coloro che sono meglio di loro.

Nelle pagine più convincenti del suo libretto sull'invidia Joseph Epstein analizza non a caso il racconto di Melville che vede per protagonista il giovane marinaio Billy Budd, uno dei personaggi più memorabili dell'intera letteratura mondiale. L'invidia, sostenevano i Padri della Chiesa, è connessa alla maldicenza e all'avidità, e discende dalla superbia che è il primo dei sette peccati capitali. Invidia da «in-videre», guardare male, di malocchio: l'invidioso è uno che non vede bene. Nella dottrina cristiana, ci ricordano due studiose del medioevo, Carla Casagrande e Silvia Vecchio, l'invidioso sperimenta il peccato senza piacere: il suo è un tarlo interiore che lo rode, una ruggine interna, una putrefazione del pensiero. Prima di Lacan i Padri avevano capito che l'invidia produce un rovesciamento: provare dolore per il piacere degli altri. San Tommaso scrive che l'invidioso vede nel bene degli altri un male per se stesso, mentre già Aristotele ribadiva che non si invidiano i lontani, bensì i vicini: l'invidia come sentimento che serpeggia nella famiglia, tra gli amici, nelle comunità ristrette.

Gli psicoanalisti di indirizzo freudiano - Freud mette in scena l'invidioso per eccellenza, Edipo, e parla di «invidia del pene» da parte delle donne - sostengono che l'invidia non è generata dal bene dell'altro in generale, ma solo da quel bene che si pensa che possa ledere l'eccellenza dell'invidioso, confermando così l'intuizione della Arendt riguardo alla disperazione: il senso di essere perduti spinge verso la malvagità, e l'invidia è vista come una possibile strada d'uscita, un modo per ristabilire in modo aggressivo il proprio Io diminuito e offeso. Per questo è la mediocrità a produrre più facilmente la malvagità, smentendo l'idea luciferina e seduttiva del Male: Eichmann è per la Arendt l'esempio del malvagio sostanzialmente mediocre. Gli psicoanalisti del Novecento - ad esempio Melanine Klein, autrice del classico Invidia e gratitudine - hanno delineato uno scenario ben più infernale di quello descritto dai Padri della Chiesa. Klein lega il sentimento dell'invidia alla pulsione di morte, a una forza distruttiva innata. L'invidia nascerebbe dal rapporto tra il neonato e la madre, al contatto con il seno materno, dispensatore di nutrimento e di piacere; in questa situazione il bambino proverebbe insieme senso di gratificazione e invidia. Dante, al contrario, non giudicava così tragicamente l'invidia, per quanto sia un peccato da condannare che colloca al Purgatorio. Il padre della nostra lingua descrive gli invidiosi come uomini che avanzano sorreggendosi gli uni agli altri per via delle palpebre cucite con filo di ferro. L'invidioso non riesce a vedere, affermano alcuni psicoanalisti in un libro curato da Enzo Funari, e perciò perde la capacità di amare.

Lo scrittore John Berger in un libro dedicato al guardare (Questioni di sguardi, il Saggiatore) scrive che nel mondo moderno la pubblicità funziona attraverso l'invidia: essere invidiati dagli altri. Di più: rende le persone invidiose di se stesse, di ciò che potranno essere attraverso l'acquisto di quel medesimo prodotto, una forma di reificazione di sé. La pubblicità non parla infatti di oggetti, bensì di relazioni sociali, non offre piacere, ma felicità misurata dall'esterno, sul metro di giudizio degli altri: «La felicità di essere invidiati è glamour». Nessuna parola come glamour rende così bene la condizione contemporanea. Il motore della pubblicità e della moda è la fascinazione prodotta dall'invidia, una invidia più tenue, ma pur sempre invidia. In questo modo questo disdicevole sentimento è diventato così uno dei motori del processo di cambiamento sociale? Grazie all'invidia ci trasformano sempre più in oggetti di noi stessi? Stando al crescente successo di Second life l'invidia avrebbe trovato un modo per succedere a se stessa trasformandoci anche sentimentalmente nell'avatar di noi stessi.
«La Stampa» del 26 giugno 2007

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