16 luglio 2007

Eliot: cultura e religione per ritrovare ciò che è perduto

Una critica della modernità fatta dal suo interno, la liberazione poetica del pensiero dal sentimentalismo dell’umanesimo liberale
di Roger Scruton
Indiscutibilmente Thomas Stearns Eliot è stato il maggior poeta di lingua inglese del XX secolo, il critico letterario anglofono più rivoluzionario dall’epoca di Johnson e il più influente pensatore
religioso nella tradizione anglicana dai tempi del movimento del metodismo di John Wesley. La sua visione sociale e politica è presente in tutti i suoi scritti, ed è stata assorbita e riassorbita da generazioni di lettori inglesi e americani, sui quali esercita un fascino quasi mistico anche quando sono spinti – come lo sono in molti – a rifiutarla. Senza Eliot la filosofia del conservatorismo avrebbe perso qualunque forma di solidità durante il secolo scorso. Sebbene non fosse suo preciso intento, egli ha elevato questa filosofia – sul piano intellettuale, spirituale e stilistico – a un livello superiore, mai raggiunto prima dall’idea socialista.
Nato nel 1888 a St Louis, nel Missouri, Eliot studia a Harvard, alla Sorbona e al Merton College di Oxford […]. Nel 1914 conosce Ezra Pound, che lo incoraggia a trasferirsi in Inghilterra. L’anno dopo si sposa, ed esce il suo primo componimento poetico di successo, “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock”, che, con altri poemetti pubblicati insieme nel 1917 con il titolo “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock e altre osservazioni”, ha profondamente cambiato il corso della letteratura di lingua inglese. […]
Poco dopo, Eliot pubblica un libro di saggi – “Il bosco sacro”, che avrebbe avuto la stessa influenza delle sue prime poesie – nei quali sosteneva la sua nuova e impegnativa teoria sul ruolo della critica, anzi della necessità della critica se vogliamo che la nostra cultura letteraria sopravviva. Secondo Eliot non è un caso fortuito che critica e poesia spesso si accompagnino nello stesso intelletto, come nel suo caso o in quello di Coleridge, che egli ha eletto a migliore dei critici inglesi. Come il poeta, il critico si preoccupa di sviluppare il “buonsenso” (sensibility) del suo lettore, un termine con il quale Eliot intendeva una sorta di intelligente osservazione del mondo umano. I critici non procedono per astrazione o generalizzazione: osservano e registrano ciò che vedono e, così facendo, comunicano anche un senso di ciò che conta nell’esperienza umana, distinguendo l’emozione falsa da quella genuina. Anche se a Eliot sarebbero occorsi molti anni per spiegare con precisione – gradatamente e, a tratti, in modo oscuro – cosa intendesse esattamente per “buonsenso”, il suo alto concetto del ruolo del critico aveva comunque fatto presa su molti dei suoi lettori. Per di più, “Il bosco sacro” conteneva saggi che avrebbero rivoluzionato il gusto letterario: in alcuni di essi, il tono autorevole e il rifiuto del romanticismo sentimentale proprio di numerosi suoi contemporanei fecero nascere l’impressione che il mondo moderno stesse finalmente facendo sentire la sua voce nella letteratura e che tale voce fosse quella di T.S. Eliot.
“Il bosco sacro” ha distolto l’attenzione del mondo letterario dalla letteratura romantica e l’ha focalizzata sui “poeti metafisici” del XVI e XVII secolo e sui drammaturghi dell’epoca elisabettiana – predecessori minori o eredi di Shakespeare – il cui lessico crudo, che ben comunicava la sensazione della cosa descritta, forniva un contrasto efficace con il sentimentalismo melenso che Eliot condannava nei suoi immediati contemporanei. C’è anche un saggio su Dante che tratta di una questione che avrebbe spesso angustiato lo scrittore: la relazione fra poesia e credenza religiosa. Fino a che punto si può apprezzare la poesia della “Divina Commedia”, se si rifiuta la dottrina che l’ha ispirata? Questo interrogativo era profondamente sentito da Eliot, e per diverse ragioni. Anzitutto (come i suoi contemporanei modernisti Pound e Joyce), era profondamente influenzato da Dante, la cui limpida forma in versi, lo stile colloquiale e la filosofia sublime avevano creato una visione dell’ideale poetico. Al contempo, tuttavia, Eliot rifiutava l’ottica teologica della “Divina Commedia”, un rifiuto permeato da un profondo senso di perdita.
Eppure, nella poesia di Eliot, la voce di Dante sarebbe costantemente risuonata, offrendogli giri di frase, fulminei lampi di pensiero e una visione del mondo moderno da un punto di vista al di fuori di esso, un punto di vista scaturito da un’esperienza di santità – che, per altro, era un’esperienza che Eliot allora non condivideva. E quando, infine, giunse a condividerla – o, almeno a riconoscere la propria conversione al cristianesimo – nell’ultimo dei “Quattro quartetti” scrisse la più elegante delle imitazioni di Dante in lingua inglese, anzi qualcosa di infinitamente più bello di una imitazione, in cui la visione religiosa dantesca è trasferita e tradotta nel mondo della moderna Inghilterra. Un altro dei saggi in “Il bosco sacro” merita di essere citato: “Tradizione e il talento individuale”, nel quale Eliot introduce il termine che meglio sintetizza il suo contributo alla coscienza politica del nostro secolo: “tradizione”. Nel saggio, si sostiene che la vera originalità è possibile solo all’interno di una tradizione e che ogni tradizione deve essere ri-costruita dall’artista mentre crea qualcosa di nuovo. La tradizione è qualcosa che vive e, proprio come ogni scrittore viene valutato paragonandolo a chi lo ha preceduto, così il significato della tradizione cambia man mano che vi vengono aggiunte nuove opere. In poche parole, sarebbe stata questa idea letteraria di una tradizione viva che avrebbe gradualmente permeato il pensiero di Eliot e costituito il fulcro della sua filosofia sociale e politica.
“Prufrock” e “Il bosco sacro” già ci aiutano a capire il paradosso di T.S. Eliot: i nostri maggiori modernisti dovrebbero essere i nostri maggiori conservatori moderni. L’uomo che ha rivoluzionato una letteratura che era ancora d’impronta ottocentesca e ha dato vita all’epoca del verso libero, dell’alienazione e dell’esperimento è stato anche l’uomo che, nel 1928, si sarebbe definito “un classico in letteratura, un monarchico in politica e un anglo-cattolico in religione”. Questo apparente paradosso contiene l’indizio che indica la statura di Eliot come pensatore sociale e politico: egli si è reso conto che è proprio nelle condizioni moderne – di frammentazione, eresia e scetticismo – che il progetto conservatore acquista il suo senso. Il conservatorismo è esso stesso un modernismo, e qui sta il segreto del suo successo. Ciò che distingue Burke dai rivoluzionari francesi non è il suo attaccamento alle cose del passato, ma il suo desiderio di vivere pienamente il presente, capendolo in tutte le sue imperfezioni e accettandolo come l’unica realtà che ci viene offerta. Come Burke, Eliot ha colto la distinzione tra una nostalgia volta al passato – che non è altro che un’altra forma di sentimentalità moderna – e una tradizione genuina che ci dà il coraggio e l’ottica giusta con i quali vivere nel mondo moderno.
Nel 1922 Eliot fonda una rivista letteraria trimestrale, The Criterion, che doveva continuare a curare fino al 1939, quando dovette chiuderla sotto la pressione di “anime depresse” a causa dello “stato attuale degli affari pubblici”. Come fa intuire il titolo [Il Criterio], il progetto era animato dal suo senso dell’importanza della critica e della futilità degli esperimenti modernisti quando non siano confortati da giudizio letterario, da serietà morale e dal senso dell’importanza della parola scritta. La filosofia proposta dalla rivista era di orientamento conservatore, anche se per definirlo Eliot preferiva il termine “classicismo”. The Criterion è stato il forum dove venne pubblicata per la prima volta molta della nostra letteratura modernista, inclusa la poesia di Pound, Empson, Auden e Spender. Il primo numero propose il lavoro che ha eletto Eliot stesso a maggior poeta della sua generazione: “La terra desolata”. Il poemetto, ai suoi primi lettori, apparve subito cogliere appieno il disinganno e il vuoto seguiti alla vacua vittoria della Prima guerra mondiale, un conflitto nel corso del quale la civiltà europea si era suicidata, esattamente come era accaduto a quella greca nella guerra del Peloponneso. […] Dopo “La terra desolata” Eliot continuò a scrivere ispirandosi a quella che vedeva come la dissociazione dolorosa tra il buonsenso della nostra cultura e l’esperienza che si ha del mondo moderno. Questa fase del suo percorso doveva culminare in una profonda dichiarazione cristiana: “Il mercoledì delle Ceneri”. Qui il poeta lascia la connotazione antropologica e annuncia la sua conversione alla fede anglo-cattolica. Eliot era ormai pronto a portare la sua croce tanto personale quanto particolare: quella del senso di appartenenza. Finito il tempo dell’esilio spirituale e politico, decise di condividere la sorte di quella tradizione alla quale appartenevano i suoi autori preferiti. Divenne cittadino britannico, membro della chiesa anglicana e scrisse il suo straordinario dramma in versi, “Assassinio nella cattedrale”, sul significato del martirio cristiano e sul lunghissimo conflitto tra chiesa e stato, a cui doveva porre fine la nascita della chiesa d’Inghilterra. […]
“Quattro quartetti” esplora in profondità le nostre possibilità spirituali e qui il poeta cerca e trova la visione al di fuori del tempo in cui tempo e storia sono riscattati. E’ un’opera religiosa e, al contempo, di straordinario potere lirico, come il “Cimitero marino” di Valéry, ma infinitamente più matura nel suo spessore filosofico. […] Ciò che Eliot rimproverava alla letteratura neoromantica non si limitava al campo letterario. Era convinto che l’uso di uno stile poetico trito e di ritmi cadenzati fosse spia di grave debolezza morale: non riuscire a osservare la vita come è davvero e a sentire quello che deve essere sentito nei confronti di un’esperienza che è inevitabilmente nostra. Credeva che questo fallimento non riguardasse solo la letteratura, ma pervadesse anche l’intera vita moderna. La ricerca di un nuovo idioma fa pertanto parte di una indagine più ampia, volta a capire la realtà dell’esperienza moderna.
Allora, e solo allora, possiamo affrontare la nostra situazione e chiederci cosa dovremmo fare in proposito. […] Per Eliot, le parole avevano cominciato a perdere la loro precisione, non malgrado la scienza, ma a causa sua; non malgrado la perdita di vere credenze religiose, ma a causa sua; non malgrado la proliferazione di termini tecnici, ma a causa sua. Il nostro moderno modo di esprimerci non ci consente più di “prendere una parola e da essa estrarne il mondo”; al contrario, le parole lo celano, visto che non comunicano a esso una risposta vissuta. Sono semplici fiches di un gioco di cliché, preposte a riempire il silenzio, a occultare il vuoto che è sopravvenuto dopo che gli antichi dei se ne sono andati dai luoghi dove abitavano con noi. Ecco perché, di norma, i moderni modi di pensare non sono ortodossie ma eresie, dove con “eresia” si intende quella verità che è stata esasperata in menzogna; una verità nella quale, per così dire, ci siamo rifugiati; nella quale abbiamo investito tutte le ansie che non abbiamo analizzato, attendendoci da essa delle risposte a quegli interrogativi che non ci siamo preoccupati di capire. Nelle filosofie che predominano nella vita moderna – utilitarismo, pragmatismo, comportamentismo – troviamo “parole che hanno l’abitudine di cambiare il loro significato […] o altrimenti vengono brutalmente condannate”. Eliot sottintende che lo stesso sia vero ogni volta che subentri l’eresia umanista, ogni volta che trattiamo l’uomo come un dio e crediamo che i nostri pensieri e le nostre parole non debbano essere misurati con un altro standard al di fuori di se stessi.
Eliot è cresciuto in una democrazia e ha ereditato quel grande bene dello spirito pubblico che è il dono della democrazia americana al mondo moderno. Ma non era democratico nei sentimenti, poiché credeva che la cultura non potesse essere affidata al processo democratico, proprio per questa incuranza nei confronti delle parole, questa abitudine ai cliché ottusi, che sempre si presentano quando si reputa che chiunque abbia uguale diritto di esprimersi. In “L’uso della poesia e l’uso della critica” scrive: “Quando il poeta si trova in un’età nella quale non c’è aristocrazia intellettuale, quando il potere è nelle mani di una classe così democratizzata che, mentre rimane tale, si pone come rappresentante dell’intera nazione; quando le uniche alternative sembrano essere il parlare a un cenacolo o fare un soliloquio, le difficoltà del poeta e la necessità della critica diventano maggiori”. Per Eliot nasce da qui l’accresciuto valore dei critici nel mondo moderno: sono loro che devono agire per recuperare ciò che l’aristocratico ideale del gusto generava altrimenti in modo spontaneo: un linguaggio in cui le parole siano usate in tutto il loro pieno significato, per mostrare il mondo com’è, senza appannarlo in una foschia di sentimento oppresso da cliché. Chi è stato cresciuto con sentimenti vuoti non ha armi per affrontare la realtà di un mondo abbandonato da Dio: cade immediatamente dalla sentimentalità nel cinismo, e così perde il potere sia di fare esperienza della vita sia di viverla con le sue imperfezioni.
Eliot aveva pertanto percepito un enorme pericolo nell’umanesimo liberale e “scientifico” proposto dai profeti della sua epoca. Gli sembrava che questa forma di liberalismo fosse l’incarnazione del caos morale, poiché permette a qualunque sentimento di fiorire e uccide qualunque forma di giudizio critico con l’idea di un diritto democratico alla parola, che diventa inconsapevolmente un diritto democratico al sentimento. Sebbene “l’umanità non possa sopportare troppa realtà” – come dice prima in “Assassinio nella cattedrale” e poi in “Quattro quartetti” – il proposito della cultura è di conservare l’osservazione intelligente del mondo umano, quella cosa sfuggevole che è detta “buonsenso”: l’abitudine al giusto sentimento. Il barbarismo non scaturisce dalla perdita delle abilità o della conoscenza scientifica della gente, né lo si evita mantenendole: nasce da una perdita di cultura, visto che è solo attraverso essa che le realtà importanti possono essere veramente percepite.
Qui è difficile definire con precisione il pensiero di Eliot e vale la pena di tracciare un parallelo con un pensatore che egli non amava: Nietzsche. Secondo il filosofo, la crisi della modernità era sopravvenuta a causa della perdita della fede cristiana, inevitabile risultato dello sviluppo scientifico e della crescita della conoscenza. Allo stesso tempo, però, per gli esseri umani è impossibile vivere davvero senza fede e, per noi che abbiamo ereditato le consuetudini e i concetti della cultura cristiana, quella fede deve essere il cristianesimo. Se si toglie la fede, non si toglie soltanto il nucleo della dottrina, né si lascia un paesaggio disboscato e scevro da ingombri, in cui la gente può essere finalmente vista per quella che è. Si toglie il potere di percepire altre e più importanti verità – verità sulla nostra condizione che, senza il beneficio della fede, non possono essere affrontate nel modo giusto. (Per esempio, la verità della nostra mortalità, che non è un semplice “fatto” scientifico da immagazzinare nella nostra conoscenza, ma una esperienza penetrante, che scorre e pervade tutte le cose e cambia l’aspetto del mondo.)
La soluzione che Nietzsche ha appassionatamente proposto per questo dilemma è stata la negazione della sovranità della verità nel suo insieme; è stato proclamare che “non ci sono verità”; è stato costruire una filosofia di vita sulle rovine di scienza e religione, in nome di un ideale puramente estetico. Eliot ha colto l’assurdità di quella risposta e il deliberato autoisolamento dell’uomo che l’ha fornita. Eppure, il paradosso rimane.
Le verità che contavano per Eliot erano verità di intuizione, verità sul peso della vita umana e la realtà del sentimento umano. La scienza non rende queste verità più facilmente percettibili, al contrario: scatena nella psiche umana una pioggia di fantasie – liberalismo, umanesimo, utilitarismo, e tutto il resto – che la distraggono con la futile speranza di una moralità scientifica. Il risultato è la corruzione del linguaggio vero e proprio della sensibilità interiore, una caduta dal buonsenso nella sentimentalità e l’offuscamento del mondo umano. Ecco quindi il paradosso: le menzogne della fede religiosa ci consentono di percepire le verità che contano; le verità della scienza, investite di autorità assoluta, nascondono quelle che contano e rendono impercettibile la realtà umana. La soluzione di Eliot al paradosso era “obbligata” dal sentiero che aveva imboccato per giungere alla sua scoperta – il sentiero della poesia, con i suoi tormentosi esempi di poeti la cui incisività, percezione e sincerità erano dovute alle credenze cristiane. La soluzione era abbracciare la fede cristiana, non come Tertulliano a ragione del paradosso, ma, piuttosto, malgrado esso. Questo spiega la crescente convinzione di Eliot che cultura e religione siano, in ultima analisi, indissolubili. Era persuaso che la malattia della sentimentalità potesse essere superata solo con una grande cultura, in cui l’opera di purificazione fosse incessante. Questo è il compito del critico e dell’artista, ed è un compito difficile: E così ogni impresa/ E’ un cominciar di nuovo, un’incursione nel vago/ Con logori strumenti che peggiorano sempre/ Nella gran confusione di sentimenti imprecisi,/ Squadre indisciplinate di emozioni e quello che c’è da/ conquistare/ Con la forza e la sottomissione è già stato scoperto/ Una volta o due, o parecchie volte, da uomini che non si/ può sperare/ Di emulare – ma non c’è competizione –/ C’è solo la lotta per ricuperare ciò che si è perduto/ E trovato e riperduto senza fine : e adesso le circostanze/ Non sembrano favorevoli…
Questo lavoro di purificazione è un dialogo, attraverso le generazioni, con chi appartiene alla tradizione: solo pochi possono parteciparvi, mentre la massa dell’umanità si smarrisce nelle retrovie, assalita da “quelle indisciplinate squadre di emozioni”. La grande cultura dei pochi è, tuttavia, una necessità morale per i molti, poiché consente alla realtà umana di mostrarsi e quindi guidare la nostra condotta. Ma perché mai la massa dell’umanità, persa com’è nella sua goffa discesa dal sublime al ridicolo – “distratta dalla distrazione dalla distrazione” –, dovrebbe essere guidata da “color che sanno”, come dice Dante? La risposta deve trovarsi nella religione e, in particolare, nel linguaggio comune che una religione tradizionale dona sia alla grande cultura dell’arte sia alla cultura di base della gente. La religione è la linfa di una cultura. Permette di custodire i simboli, le storie e le dottrine che ci consentono di confrontarci sul nostro destino; attraverso i sacri testi e le liturgie, costituisce il punto fermo al quale il poeta e il critico possono tornare – con uno stesso linguaggio, quello dei semplici credenti e dei poeti, che devono affrontare le sempre nuove condizioni di vita che seguono la conoscenza: una vita in un mondo senza più valori.
dal “Manifesto dei conservatori” (Raffaello Cortina Editore, 250 pagine, 22 euro) in libreria da martedì 22 maggio

«Il Foglio» del 19 maggio 2007

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