17 luglio 2007

Darwin, i limiti del caso

Parla Michael J. Behe, teorico del Disegno intelligente: «L'evoluzionismo non riesce a rendere conto dei sistemi complessi»
di Andrea Lavazza
E' il teorico del Progetto Intelligente (ID nella sigla inglese), autore del saggio (La scatola nera di Darwin) diventato il punto di riferimento per i sostenitori della "via di mezzo" tra evoluzionismo e creazionismo che – in base alla complessità irriducibile della natura – postula un Progettista dietro la comparsa della vita, e dell’uomo in particolare. L’americano Michael J. Behe, 55 anni, docente di Biochimica alla Lehigh University, è stato ascoltato anche nella causa "Kitzmiller contro Dover Area School District", conclusasi con una sentenza sfavorevole all’ID, definito «non teoria scientifica ma visione religiosa» e quindi da tenere fuori dai programmi scolastici. Ma Behe, con il movimento che ha i suoi centri nel Discovery Institute e nella International Society for Complexity Information and Design, non fa passi indietro. Anzi, ha appena pubblicato un nuovo volume: Il confine dell’evoluzione. Alla ricerca dei limiti del darwinismo, Free Press.
Professor Behe, quali sono i nuovi argomenti a favore dell’ID che porta nel libro?
«Dieci anni fa, nel mio Darwin’s Black Box sostenevo che alcune complesse macchine molecolari della cellula richiedono un progetto intelligente dotato di uno scopo. Tuttavia, alcuni aspetti più semplici della cellula stessa possono venire spiegati con l’evoluzione frutto del caso. In The Edge of Evolution, mi chiedo dove sia ragionevole porre il confine tra il caso e il progetto. E mostro come il progetto intelligente sia implicato nella cellula molto più in profondità di quanto pensassi in precedenza».
Contro l’idea di evoluzione unicamente in termini di mutazione casuale, lei fa ancora riferimento a certe strutture cellulari e all’analogia della trappola per topi (un meccanismo che funziona solo se ha tutti i suoi pezzi, non è possibile che la natura ne abbia selezionato a caso le singole parti). Il biologo Kenneth Miller ha scritto un saggio per confutare tutto ciò. Inoltre, ha appena recensito il suo libro su «Nature», afferman do che gli argomenti sono fallaci. Che cosa risponde?
«Le spiegazioni su questo punto di Miller e di altri darwinisti sono un tipico esempio di auspici vaghi, di racconti che dovrebbero condurre al risultato voluto. Miller cambia tema surrettiziamente e non dice come i flagelli [le strutture cellulari in questione, ndr] si siano evoluti per mutazione causale. Nella sua recensione, poi, ignora il focus del mio libro, cioè che i risultati delle osservazioni indicano come i processi darwiniani non riescano a rendere conto dei sistemi complessi. Miller si limita a immaginare che vi possano essere circostanze in cui il caso è sufficiente».
Lei parla a lungo anche della malaria. Che cosa vuole sostenere, considerando che alcuni ritengono il parassita un controesempio alle sue tesi?
«Sappiamo che anche il parassita responsabile della malaria è un organismo complesso ed elegante. Ciò porta a pensare che anch’esso sia frutto del progetto intelligente. Ovviamente, è pernicioso per l’uomo. Forse la sua utilità per la vita sulla Terra risiede in qualcos’altro, di modo che, complessivamente, risulti benefico. Sicuramente, sappiamo ancora troppo poco».
Nel libro vengono anche portati argomenti statistici. Ce ne può accennare?
«Gli organismi più numerosi sul nostro Pianeta sono microbi, batteri e virus. L’osservazione di un numero enorme di essi per migliaia di generazioni mostra che le mutazioni casuali facilmente danneggiano il genoma ma non costruiscono strutture complesse come quelle osservate nella cellula. Ma se il meccanismo darwiniano non funziona quando dispone di così tante opportunità, non lo farà a maggior ragione nelle piante e negli animali, quando ne ha assai meno. Questi dati ci forniscono valide ragioni per pensare che le mutazioni casuali e la selezione naturale non possano rendere conto delle eleganti strutture della vita, nemmeno in miliardi di anni».
La sentenza del 2005 ha rigettato la possibilità di insegnare il progetto intelligente nelle scuole pubb liche. Qual è oggi la situazione? I suoi colleghi universitari hanno preso le distanze dalla sue ricerche, ma nell’opinione pubblica molti ritengono falsa l’idea di evoluzione darwiniana...
«Attualmente, negli Stati Uniti il clima è ostile alla presentazione nelle scuole del "progetto intelligente", che si può insegnare solo negli istituti privati. Gli scienziati in genere sono molto critici verso l’ID. D’altra parte, la maggioranza degli americani crede in Dio, ma apprende come va la natura da ciò che scrivono gli scienziati. È un problema sociologico di difficile soluzione».
Papa Benedetto XVI sembra avere manifestato un implicito interesse per la teoria del progetto intelligente come da lei e da altri presentata...
«La Chiesa ha sempre creduto nel "progetto intelligente", in quanto crede che Dio ha creato la natura volontariamente, con lo scopo di far nascere la vita. Come scrisse nel 1986 l’allora cardinale Ratzinger, "dobbiamo avere l’audacia di affermare che i grandi progetti della creazione vivente non sono il prodotto di caso ed errore". Che poi le gerarchie decidano di prendere pubblicamente posizione a favore di un gruppo che porta il nome di "progetto intelligente" dipende da molte considerazioni. Una è che ciò potrebbe far aumentare l’ostilità del mondo accademico verso la Chiesa. D’altra parte, gli scienziati darwiniani sono per lo più atei e prevenuti verso l’espressione della fede, cosicché risulta egualmente pericoloso dare credito alle loro teorie».
Che tipo di Progettista ha in mente? E se il disegno è "intelligente", come si spiega il male?
«Io sono un cattolico che crede in un Dio onnisciente, onnipotente e buono. Credo, quindi, che Dio sia il Progettista dell’universo e della vita. Non ho risposte al problema del male, che angustia i teologi da duemila anni. La sofferenza è un mistero che noi crediamo Dio permetta per suoi imperscrutabili scopi. Ma la scienza resta amica della religione, benché molti scienziati purtroppo non lo siano, tent ati dall’arroganza di conoscere ogni cosa».
«Avvenire» del 7 luglio 2007

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