04 aprile 2007

L’ultimo Impero

Nel suo nuovo libro Eric Hobsbawm riflette sulla nascita e caduta delle superpotenze
di Luciano Canfora
Roma antica, Unione sovietica e Stati Uniti Il tramonto comincia da una crisi interna
I ceti dirigenti persero fiducia nei propri destini e si avvicinarono ad altre spiritualità

«Ritenendo di non essere in grado di opporsi agli americani, alcuni preferiscono unirsi a loro. Altri, pur odiando l’ideologia che sta dietro al Pentagono, scelgono di sostenere il progetto americano convinti che, una volta messo in atto, esso riuscirà ad eliminare ingiustizie locali e regionali». Alla luce di questa diagnosi sostanzialmente esatta, Eric Hobsbawm, nel suo recentissimo Imperialismi (Rizzoli, pp. 80, 9) composto di tre saggi tra loro ben coerenti, lancia una efficace, e forse inedita definizione del fenomeno più importante del nostro tempo: «Imperialismo dei diritti umani». E parla anche di «coalizione al potere», ridotta ormai a due soli soggetti: gli Stati Uniti e l’ex grande potenza britannica. Ma una tale assunzione di «responsabilità mondiale», da cui si è «smarcato» l’ex-fedelissimo satellite turco, non può durare ancora per molto, sostiene Hobsbawm. Tra l’altro ai cittadini degli Stati Uniti piace sempre meno che il proprio governo mandi a rotoli l’economia pur di assolvere al ruolo di gendarme planetario. E comunque, nota Hobsbawm - e questo gli sembra l’argomento principale -, «l’unica cosa assolutamente certa» è che anche l’impero americano «sarà transitorio come tutti gli altri imperi». A sostegno di questa profezia, lo storico inglese adduce l’argomento già adoperato da Giovanni Paolo II nel giorno stesso in cui scattava l’attacco all’Iraq (aprile 2003), ma censurato da tutta la stampa e dai notiziari di maggiore ascolto, in Italia e all’estero: che cioè «tutti gli imperi precedenti sono caduti». La censura inflitta ad un pontefice un tempo prediletto in Occidente, e a giudicare dal libro di Carl Bernstein (Sua Santità, Rizzoli) interlocutore diretto della Cia al tempo di Solidarnosc, merita di essere qui rievocata. L’attacco all’Iraq scattò nei giorni di Pasqua. In occasione della processione (che si svolge di venerdì) in cui il Papa trasporta, per un tratto, sulle proprie spalle, la croce, giunto davanti al Colosseo - simbolo omicida dell’imperialismo dell’antica Roma - Giovanni Paolo II si fermò, e parlò col consueto vigore profetico potenziato dal suo esotico italiano, e disse additando l’orribile edificio: «Anche l’impero romano alla fine cadde!». Da poche ore le bombe «intelligenti» di Bush avevano incominciato a devastare Bagdad. L’allusione era inequivocabile. E l’imbarazzo fu tale che soltanto un notiziario radio alquanto antelucano diede conto di quelle parole, laddove i giornali - grandi, meno grandi, piccoli - cancellarono la frase. Una valutazione del genere si può pronunciare nel vivo di un dramma storico nel suo pieno svolgersi - fu il caso di Wojtyla -, o invece con la sovrana olimpicità dello storico che contempla lo snodarsi dei secoli, o dei millenni, come è il caso di Erodoto, nel proemio delle sue Storie. Lì serenamente osserva Erodoto come, nel corso dell’inesorabile scorrere del tempo, «città che erano grandi diventarono piccole, e viceversa». Lui veniva dal mondo persiano, e sapeva come Creso era finito nella rovina e come Ciro era salito ai vertici del potere mondiale (dell’epoca), e anche come Serse aveva perso la sua «grande armata» alle prese con l’intelligenza e la flotta della «piccola» Atene. E mentre scriveva quelle parole già vedeva profilarsi la decadenza di un altro impero, quello che Atene aveva costruito a partire appunto dalla vittoria sui Persiani trasformatosi poi, come ben sapeva Tucidide, in «tirannide». Hobsbawm parla, in queste pagine, alla maniera di Erodoto e prevede la fine della attuale guerresca pax americana (ben più guerresca della pax augusta) richiamandosi all’ecatombe di imperi, coloniali e non coloniali, di cui è punteggiata la storia del Novecento. Ma non sarà troppo indulgente, il «grande vecchio» della storiografia europea, verso il criterio affascinante, indispensabile e pur insidioso dell’analogia? Categoria, o «forma a priori» della conoscenza storica, l’analogia rischia talvolta di appannare la necessaria vigilanza dello storico, proteso a cogliere invece la differenza. Proviamo a guardare, appunto, le differenze. Per vari aspetti, il caso degli Stati Uniti è unico rispetto a tutti gli imperi conosciuti, almeno per una ragione non secondaria. Tutti gli altri imperi furono territorialmente vulnerabili, gli Usa lo sono molto meno, o forse per nulla. Sembrava ai Greci inattingibile l’impero persiano, che pur dopo lo scacco di Salamina era divenuto il vero regista (come ricorda con crudo realismo Demostene) della politica greca. Eppure Filippo e soprattutto Alessandro, suo figlio, dimostrarono che poteva essere attaccato in profondità e crollare in pochi anni. Roma nonostante l’abilità nel cooptare le élites dei popoli conquistati e nonostante il sistema difensivo-offensivo del limes, fu presa e dovette profondamente mescolarsi con i «barbari» straripanti e conquistatori. E la lista potrebbe proseguire, fino all’impero britannico la cui fine fu solo ritardata nel ‘18 e poi nel ‘41, e fino a quello sovietico i cui missili a lunghissima gittata puntati oltre Oceano furono resi vani dall’implosione del sistema. Diversamente dagli altri imperi, gli Usa sono anche un continente, giacché il controllo della Latino-America non sarà prevedibilmente incrinato né da Lula né da Chavez. Inoltre gli Usa hanno tuttora un controllo «militare» sui prezzi delle materie prime mondiali. Infine non possono subire attacchi efficaci né da eserciti invasori né da terroristi. Emblematica la nullità, sul piano militare, dell’11 settembre, e significativa al contrario la capacità dimostrata dagli Usa di sfruttare politicamente il panico derivatone. È ovviamente azzardato lanciarsi in profezie dopo l’ecatombe di profezie storico-politiche prodottasi nel XX secolo. La meno inverosimile è forse quella prospettata da Toynbee nel lontano 1952, quando mise in luce che l’impero di Roma si era progressivamente disgregato perché i ceti dirigenti avevano via via perso fiducia nei propri destini imperiali e si erano lasciati pervadere da altre «spiritualità». Insomma l’inversione di tendenza verrà più probabilmente da una crisi di fiducia nei propri valori da parte di chi sta al vertice dell’impero. Per ora invece quei gruppi dirigenti sembrano aver fatta propria un’interessante variante della versione più radicale dell’ideologia avversaria, quella della «rivoluzione permanente», o, se si vuole, dell’«esportazione del socialismo» (oggi dell’occidentalismo) fallita molto presto e definitivamente archiviata dall’ipotesi, di ripiego, del «socialismo in un Paese solo». Quando si spegnerà il «fondamentalismo occidentalista» che oggi domina la parte più forte e aggressiva dell’Occidente si ricomincerà a comprendere che le differenti parti del pianeta potranno convivere, solo se sarà loro consentito di vivere «iuxta propria principia».
«Corriere della sera» del 22 marzo 2007

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