05 aprile 2007

La strana Iliade di Via Merulana

Rilettura del capolavoro di Gadda
di Giorgio Montefoschi
Quando si pensa di possedere una verità, la scena si scompone

A cinquant’anni dall’apparizione in volume della sua seconda versione - la prima, come è noto, fu affidata fra il 1946 e il 1948 ai numeri della rivista Letteratura - Garzanti ripubblica Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (pp. 275, 18), il capolavoro che Gadda avrebbe voluto completare e poi non finì, con una toccante prefazione di Pietro Citati, e una copertina davvero «giusta»: una vecchia fotografia in bianco e nero, nella quale si vedono quattro persone al tavolo di un’osteria, illuminate dalla luce fioca che viene da dentro, e una donna massiccia, di spalle, scura, col cappotto e due sporte, che attraversa i sampietrini. Quella, è Roma. Credo che chiunque volesse decidersi a leggere (o rileggere) come ho fatto io, il Pasticciaccio, concedendosene sette, otto pagine al giorno, non di più - ma sono già tante, una o due basterebbero - potrebbe passare un mese meraviglioso: la bellezza della lingua, potentemente graffiata dal dialetto, rinviata a modelli inusitati o arcaici, obbediente a un’armonia segreta che sempre sorprende e costringe a ricomporre in una nuova prospettiva le parole e il loro suono, non ha paragoni; lo stupore che nasce dalla profondità dello sguardo nell’anima di ogni vivente, lascia senza fiato; il riso, è travolgente. Come, a proposito dell’Iliade, scrisse Wolfgang Shadewaldt in un saggio famoso: «È costruita per scene», così possiamo dire per il Pasticciaccio, una volta che il libro è chiuso. Nell’Iliade, l’ira d’Achille, la battaglia alle navi, i funerali di Patroclo, il duello con Ettore, il viaggio notturno di Priamo; il pranzo dai Balducci, il furto in casa della contessa Menegazzi, l’assassinio di Liliana Balducci, l’interrogatorio del cugino Valdarena, quello di Ines, la casa di Zamira ai Due Santi, il confronto fra Lavinia e Camilla Mattonari, la casa della serva Assunta col vecchio moribondo, nel Pasticciaccio. Senonché, mentre nell’Iliade - sempre seguendo Shadewaldt - «queste scene sono variamente disposte secondo un crescendo interno, in modo che, per così dire, una lunga rampa conduce in alto e poi, in una breve, stringata descrizione, segue l’evento-cardine», nel romanzo di Gadda l’evento-cardine sembra per principio escluso, inghiottito dalla volontà suprema di non dar risposta a nulla, da un rispetto tanto sacro della realtà da considerarla descrivibile fin nei suoi più invisibili dettagli, e contemporaneamente, in tutto il suo essere, avvolta nel mistero. Qualcuno potrebbe, infatti, azzardare una congettura, altro che assai nebulosa, proveniente dal testone nero del commissario Ingravallo? Potrebbe azzardarsi a certificare un sospetto o un indizio riguardante le colpe del commendator Angeloni con la «panza a pera», quelle dei vari fattorini, della portiera Manuela Pettacchioni su e giù per le scale del palazzo di via Merulana, del losco marito Balducci, del laido Valdarena, della bella Ines sciolta nei suoi disperati singhiozzi? Potrebbe, seppure con cautela, arrischiarsi a prevedere un destino - prima del buio che dovrà accoglierci tutti - per il brigadiere Pestalozzi in epica discesa dai Castelli con la sua moto, per gli assistenti del commissario con la bocca piena del panino «embricato» con somma sapienza dal «Maccheronaro», per le cucitrici e le serve, i carabinieri chinati a frugare nei pitali con la cucitura dei pantaloni sul sedere che si disfa, i polli, le porchette «già addormite», le galline che ogni giorno rischiano la tragedia al passaggio a livello? Mai. Ecco perché - lo sanno tutti - è impossibile raccontare il Pasticciaccio: perché quando credi di possedere una verità o una traccia, o una composizione della scena, ecco che quella verità ti sfugge, e quella medesima scena si moltiplica in innumerevoli scene minori, ciascuna provvista di un suo spessore e di un suo orgoglio, se ci vai dappresso. Forse, per raccontarlo, e non deve sembrar paradossale, occorrerebbe (ma la tentazione contraria è fortissima) abbandonarlo proprio questo testo sublime che non concede facoltà di descrizione o riassunto, e tantomeno di mimesi, e affidarsi invece alla memoria delle rispettive emozioni. Allora, forse, diventa meno presuntuoso, più semplice, dire qualcosa sul Pasticciaccio brutto de via Merulana. Si può parlare, esempio, dell’immenso sgomento che si prova davanti al cadavere della Balducci, con lo sgarro nella gola, le vesti rovesciate, le cosce ceree, la biancheria immacolata, il tenue solco sul monte: e gli occhi sbarrati da questa parte, prima del confine invisibile. O del fremito di vita che corre nella campagna romana, coi suoi acquedotti, le sue torri dirute, il Roma-Napoli, i suoi orti, il sole e i piovaschi bizzarri di marzo: e in tutta la natura, in tutte le cose che - come Flaubert e Proust - Gadda pensava fossero custodi di un’anima, oltre che del tempo. O dire del cinismo, della cattiveria, dell’ironia di Gadda. Oppure, della sensualità femminile, così selvaggia, quale esala da ogni fiato, da ogni strappo di camicetta, da ogni sguardo, da ogni corpo femminile: e, certamente, ha l’impronta del desiderio. Oppure, del dolore. O, finalmente, della grande pietà di Gadda: la pietà che nasce dall’amore per il creato e per le creature, per ogni frammento della vita e ogni angolo dell’universo, per l’infamia e l’onore, la ricchezza e la miseria, la santità e il delitto. La pietà che non alberga in tutti i cuori. Ma che è la sola che può salvarci.


«Corriere della sera» del 4 aprile 2007

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