Dal mito del Terrore all’era democratica di Stati Uniti e Israele
di Sergio Luzzatto
di Sergio Luzzatto
Non era un uomo facile, François Furet. Teneva le persone a distanza, trattandole con un riserbo che si poteva scambiare per alterigia. Nei rapporti con i colleghi, con gli studenti, con i media, non nascondeva, anzi quasi esibiva il distacco del gran borghese, rampollo di un’illustre famiglia di tradizione capitalistica, protestante e repubblicana. Forse, la sua apparente freddezza equivaleva a una forma di autodifesa rispetto ai postumi di una giovinezza drammatica (in sanatorio, per curare la tubercolosi) e alle ferite di un’infanzia tragica (il suicidio di entrambi i genitori). Ma di là dalle apparenze, Furet era tutt’altro che un freddo. Era un uomo appassionante e appassionato. Era un generoso, capace di eleggere a interlocutori, ad amici, a protégés, persone anche le più lontane da lui per estrazione anagrafica, sociale, geografica. Ed era un fazioso, sempre tentato di credere che chiunque non fosse d’accordo con lui fosse contro di lui. In fondo, nella generosità come nella faziosità, Furet ha conservato per tutta la vita qualcosa del militante comunista ch’egli era stato fra i venti e i trent’anni, nella Francia del secondo dopoguerra. Poiché prima di diventare, da sessantenne, un punto di riferimento del liberalismo transalpino, l’erede di Raymond Aron, Furet aveva condiviso con altri intellettuali della sua generazione l’«illusione» del comunismo: quella stessa di cui alla vigilia della morte si sarebbe fatto lo storico, in un libro molto letto anche in Italia, Il passato di un’illusione. Dopo la sua scomparsa, nel 1997, sempre più spesso Furet è stato additato dall’intellighenzia radicale, francese e straniera, come l’anima nera di un pensiero unico ultraliberale, ultracapitalistico, ultraglobalizzante. Ed è per smentire quest’immagine peggiorativa che un suo ex allievo e collaboratore, Ran Halévy, ha pubblicato in Francia un libretto, L’expérience du passé, «L’esperienza del passato» (Gallimard), che vale da simpatetico ritratto del Furet studioso, giornalista, uomo pubblico. Ne viene fuori un personaggio troppo irrequieto per proporsi come un caposcuola, troppo bastian contrario per seguire un’agenda politica, troppo curioso per parcheggiarsi in una dogmatica. Più che un’anima nera, uno spirito libero. Quanto ha tenuto insieme i vari interessi di Furet è stata la storia delle idee democratiche e delle passioni rivoluzionarie dal Settecento al Novecento. Specialista della Rivoluzione francese, Furet ha sottratto quest’ultima alla griglia concettuale del marxismo, che lungamente ne aveva fuorviato l’interpretazione. Dopo i suoi studi, è divenuto impossibile descrivere la Rivoluzione come una specie di balletto a tre che avrebbe visto coinvolti un’aristocrazia reazionaria, una borghesia progressiva e un incipiente proletariato, tutti impegnati a creare le condizioni per l’avvento di una moderna società capitalistica. Ed è diventato impossibile attribuire la deriva della Rivoluzione verso il Terrore al solo peso delle «circostanze», in particolare della guerra scatenata contro la Francia rivoluzionaria dalla coalizione dei monarchi d’Europa. Prima e meglio di qualunque altro storico novecentesco, Furet ha riflettuto sull’originalità della Rivoluzione francese come avvenimento epocale proprio perché estraneo a chissà quale transizione (marxiana o marxista) dal feudalesimo al capitalismo. La Rivoluzione affascinava Furet in quanto mirabile, temibile, terribile inizio: promessa di emancipazione, vertigine della tabula rasa, logica da fratricidio. In modo via via più perentorio, Furet ha sostenuto che il Terrore era iscritto nel patrimonio genetico della Rivoluzione: Rousseau doveva partorire Robespierre, l’utopia illuministica di una società di liberi e di uguali non poteva che sfociare nell’ossessione giacobina del complotto e nell’eliminazione sistematica del nemico interno. Ma questo giudizio storico (probabilmente infondato - questa è l'opinione di Luzzatto - nota mia) non ha impedito al Furet «politico» di restare un ammiratore del 1789, e della scommessa che conteneva: la scommessa in un mondo senza privilegi e senza classi, dove i singoli individui costruiscono e garantiscono l’universalità del genere umano. Da qui, l’attrazione intellettuale di Furet per due nazioni «giovani» che rappresentano il più compiuto esito moderno dell’era democratica apertasi nel Settecento: gli Stati Uniti e Israele. Due nazioni nate e cresciute senza alcun passato di nobiltà o di privilegio, senza l’ombra di un ancien régime. Due prodotti allo stato puro dell’ambizione illuministica e rivoluzionaria di istituire attraverso la ragione una comunità di individui liberi e uguali. L’attenzione di Furet per gli Usa, e ancor più per Israele, è assai meno nota di quella sua per la Rivoluzione e per il comunismo. Nel suo libro, Ran Halévy (francese d’adozione, israeliano d’origine) ha il merito di sottolinearne l’importanza. Senza avere coltivato di prima mano né la storia del sionismo, né la storia di Israele, Furet ha saputo posarvi uno sguardo complice, eppure critico. Diversamente da buona parte dell’intellighenzia di sinistra, Furet ha ragionato di Israele a partire dai due ingredienti essenziali della sua identità contemporanea: la nazione e la religione. Nella rivoluzione sionista, lo studioso delle rivoluzioni settecentesche ha facilmente riconosciuto alcuni elementi classici del repertorio politico europeo, dall’ideale di laicità all’investimento sull’idea di patria. Ma nella nascita dello Stato di Israele, Furet ha riconosciuto anche un elemento di eccezione novecentesca rispetto al repertorio settecentesco: l’ancoraggio di una nazione in una religione. Così, Furet ha rilevato il paradosso di uno Stato costruito, insieme, su quanto di più antico e quanto di più nuovo nella plurimillenaria vicenda ebraica: la Bibbia e il sionismo. Furet ha calcolato il prezzo che Israele ha rischiato di pagare per questo cortocircuito temporale: una «semi-censura collettiva» intorno a tutto ciò che sta in mezzo, la storia quasi intera del popolo ebraico. E Furet ha soppesato l’ipoteca politica della religione sopra la nazione. «L’accento posto sull’origine biblica installa la religione come cofondatrice dello Stato, inseparabile dalla potenza pubblica. Trasforma la società nell’ostaggio di un rabbinato conservatore, a dispetto della volontà espressamente moderna di coloro che l’hanno fondata»: sono parole risalenti a venticinque anni fa, ma si direbbero scritte ieri, anzi oggi.
François Furet, nato il 27 marzo l927, ha conseguito l’agrégation di Storia nel l954, anno in cui è uscito dal Partito comunista. Nel 1965 è uscito il suo libro La Révolution française. Ha diretto, tra il l977 e il l984, l’École de Hautes Études en Sciences Sociales. È morto a Parigi nel l997 Ran Halévy ha pubblicato in Francia L’expérience du passé, «L’esperienza del passato» (Gallimard), ritratto del Furet studioso, giornalista e uomo pubblico.
«Corriere della sera» del 4 aprile 2007
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