di Pierluigi Battista
Il «ritorno alla censura» non è solo il titolo di un brillante pamphlet di Vitaliano Brancati in difesa di un suo lavoro teatrale massacrato dalle forbici dei moralizzatori intransigenti: è la fotografia di ciò che accade in modo sempre più prepotente ai nostri giorni. «Vietato vietare» assomiglia oramai al reperto sbiadito di un’epoca finita. I moralizzatori sbeffeggiati da Brancati si esercitano su ogni frammento della vita associata. Il miserabile porno notturno delle tv di serie B? Vietato. La pubblicazione sui giornali degli atti di un’inchiesta? Vietato. Un libro sulfureo che sarà pure un cattivo libro ma è pur sempre un libro? Vietato. Su La Stampa Michele Ainis propone un ancora sommario aggiornamento dei trionfi censori di cui dovremmo andare orgogliosi: «I fulmini dei benpensanti sulla serie tv di Lino Banfi, padre di una lesbica. O ancora sull’ultimo film di Mel Gibson, o su un manifesto pubblicitario di Dolce e Gabbana. La condanna di Vittorio Sgarbi in Cassazione, per aver osato sostenere che la magistratura fa politica. Il giro di vite sugli striscioni negli stadi, salutato dagli ultras della Sampdoria inalberando scritte con l’articolo 21 della Costituzione che protegge la libertà d’espressione. Il sequestro a Bolzano di un’opera artistica che associava il nostro inno nazionale allo sciacquone del water. O l’inchiesta giudiziaria su Google, nonché la minaccia governativa d’oscurare il sito dopo il video del ragazzo autistico vessato a Torino dai suoi compagni di scuola». Se Ainis avesse voluto arricchire il carnet della censura con il resto dell’Europa (la «nostra» Europa, quella ancorata ai nostri valori e ispirata alla nostra concezione della libertà) avrebbe potuto ricordare il caso di Ajaan Hirsi Ali, costretta a lasciare l’ex tollerante Olanda per rifugiarsi in America. Oppure quello dello studioso francese Alain Finkielkraut, di cui è stata chiesta imperiosamente e prepotentemente l’estromissione dalla cattedra presso il Politecnico di Parigi e la cancellazione della trasmissione curata sul canale France Culture, solo perché dalla sua penna sono uscite considerazioni poco conformi all’ideologia dominante in occasione della rivolta nelle banlieue. O dello scrittore Michel Houellebecq, messo sotto processo per i suoi libri accusati di fomentare nientemeno che lo «scontro di civiltà». Avrebbe potuto menzionare anche la passività con cui in Danimarca è parso naturale spezzare la matita di vignettisti irriverenti. E chissà, addirittura, se non avesse avuto timore di passare per filo-clericale, stupirsi per la freddezza indifferente con cui è stata accolta la perentoria richiesta di autocritica al Papa, colpevole di aver citato Michele il Paleologo in una sua lezione a Ratisbona. Un miscuglio post-moderno di antica ipocrisia moralistica, di neo-bacchettonismo, di dogmatismo del politicamente corretto, di paura, di smarrimento di fronte al disordine del mondo crea la condizione psicologica e culturale più propizia alla sindrome censoria. Il divieto diventa la ricetta più semplice da suggerire, il bavaglio il rimedio più efficace per vagliare e filtrare fenomeni che è difficile padroneggiare e lasciar esprimere senza il soccorso di regole minuziosissime e costrizioni asfissianti. Vietare è il nuovo imperativo, la soluzione immediata, la scelta che sembra confortata insieme dall’etica e dal buon senso. A oltre cinquant’anni dalla denuncia di Brancati, la censura è tornata come criterio accettabile e persino auspicabile. Non sarà difficile per Ainis aggiornare il suo interminabile elenco censorio. Molto in fretta, purtroppo.
«Corriere della sera» del 19 marzo 2007
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