06 febbraio 2007

Quei rimbrotti del ‘77 a Bobbio e Montale «colpevoli di dissenso»

Amendola e Sanguineti contro gli intellettuali che osarono difendere il diritto alla paura
di Pierluigi Battista
Tra i libri che rievocano, vent’anni dopo, la stagione tumultuosa del ‘77, quello di Stefano Cappellini, Rose e pistole edito da Sperling & Kupfer, racconta anche di come Eugenio Montale e Leonardo Sciascia furono bollati come vili, pavidi, rinunciatari, persino maestri di diseducazione civica. E ai nostalgici del tempo che fu restituisce l’atmosfera di un dibattito politico e culturale in cui, accesi i fuochi del terrore e della sopraffazione, la paura sembrava la parola dominante, l’orizzonte emotivo, la prigione mentale da cui difficilmente si poteva evadere. E agli intellettuali si chiedeva imperiosamente mobilitazione e non riflessione, disciplina e non dissenso, certezze granitiche e non dubbi ed esitazioni. Era accaduto che sedici cittadini, ricorda Cappellini, avevano inviato «un certificato medico per dirsi affetti da "sindrome depressiva" e perciò impossibilitati a esercitare la funzione di giurati popolari al processo contro il nucleo storico delle Brigate Rosse» presso la Corte d’Assise di Torino. Quei cittadini, sconvolti dalle uccisioni, dagli agguati, dalle vendette cruente, dai ferimenti, dalle sparatorie che imperversavano mentre lo Stato che avrebbe dovuto proteggerli appariva impotente e arrendevole, avevano semplicemente paura. Dovevano perciò essere esposti alla pubblica riprovazione come disertori, imboscati, addirittura traditori? Montale scrisse che no, «avrei avuto paura anch’io». Italo Calvino interpretò le parole di Montale come la quintessenza di una filosofia della resa: «Lo Stato è tutti noi». Leonardo Sciascia replicò spiegando che, «non fosse stato per il dovere di non avere paura», avrebbe avuto la tentazione di rifiutare l’incarico di giurato popolare. Norberto Bobbio si schierò con Montale e Sciascia: «lascio volentieri ai fanatici che vogliono la catastrofe e ai fatui, cioè a coloro che pensano che alla fine tutto si accomoda, il piacere di essere ottimisti». Una normale discussione tra intellettuali. E che tale sarebbe rimasta se l’intervento di Giorgio Amendola, uno dei più autorevoli esponenti storici del Pci, non avesse provveduto a conferire al dibattito un tono ultimativo e minaccioso, come un’ingiunzione al silenzio per intellettuali afflitti da un’ipertrofia del dubbio, deplorevole fonte di indebolimento e di infiacchimento morale: «Bobbio dimostra di avere una concezione aristocratica della lotta politica»; «le dichiarazioni di Sciascia e Montale sono diseducative poiché vengono pronunciate proprio nel momento in cui tutti gli italiani sono chiamati a dar prova di coraggio civile, ognuno nel posto che occupa». La discussione come esercizio «diseducativo», il dubbio come sabotaggio, boicottaggio di una lotta che non ammette incrinature e disobbedienza. Si capisce la reazione di Sciascia al richiamo di Amendola: «chi dentro un partito comunista ha attraversato senza scendere da cavallo lo stalinismo e l’antistalinismo, una giustificazione del suo restare a cavallo deve pur darsela. Se ti conformi a quello che facciamo, sei un coraggioso. Se osi dissentire, sei un vile». Meno ovvio, per chi oggi assiste all’estremismo verbale di un Edoardo Sanguineti, vedere nel libro di Cappellini citate le parole del poeta d’avanguardia a strenua difesa della sacralità del Partito: «in Sciascia c’è una metafisica del dissenso, il compito dell’intellettuale è fatto coincidere artificialmente col dissenso». L’intellettuale come funzionario del consenso: anche questo auspicio era usuale in quegli anni che non meritano nessuna nostalgia. Anche se nel frattempo è cambiato tutto, ma non le ossessioni dei poeti di partito.
«Corriere della sera del 29 gennaio 2007

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