20 febbraio 2007

Partecipo quindi sono

di Stefano Zecchi
Chi sono i giovani che a un comando, a un richiamo, a una semplice sollecitazione arrivano a migliaia a Vicenza per protestare contro l’installazione di una base militare americana? La risposta semplice questa volta non arriva alla sostanza della domanda. Si dice: sono giovani di sinistra, pacifisti, antiamericani... d’accordo. Ma come manifestano? Con quale stato d’animo, con quale bagaglio culturale?
C’è una differenza essenziale tra questo genere di manifestazioni e quelle non meno imponenti e politicamente rilevanti che vedevano un tempo il movimento operaio scendere in piazza guidato dal sindacato e dal Partito comunista, a cui si aggregavano intellettuali, studenti, compagni di strada. Questo vecchio genere di manifestazioni si muoveva su un binario molto preciso che manteneva in parallelo il mito e la storia.
Miti di eguaglianza, di giustizia sociale, di libertà, di progresso... tutti i miti racchiusi nelle canzoni Bandiera Rossa e l’Internazionale, profusi a squarciagola durante le marce. Ma al mito si accostava la consapevolezza storica, la conoscenza del ruolo del movimento operaio nell’organizzazione sociale, nella funzione del Partito comunista nella vita politica nazionale.
Il mito spinge all’azione, incanta, inebria, esalta. La storia porta alla comprensione politica del significato dell’azione. E anche la violenza, che nelle manifestazioni di massa è sempre latente, può essere culturalmente controllata o condannata se l’azione si sviluppa all’interno di una consapevolezza storica che fornisce l’orientamento politico.
Oggi i giovani possiedono il mito, ma non la conoscenza della storia. Compiono atti esemplari, non politici perché nessuno li ha mai avviati verso una seria e cosciente riflessione storica, perché i primi che dovrebbero sollecitarli a questa riflessione sono anche i primi a contraddirsi politicamente. Sono, appunto, i leader della sinistra che con il loro «ci vado, non ci vado a Vicenza» non esprimono un dubbio amletico, ma una confusione storica che mette in luce tutte le loro contraddizioni politiche.
I leader della sinistra di governo che manifestano a Vicenza contro le decisioni del governo non sono purtroppo semplicemente grotteschi, ma pericolosamente inneggianti a mitologie esemplari che portano ad azioni puramente esemplari (quindi potenzialmente pericolosissime). Se il mito non trova nella storia il suo tracciato, l’azione si giustifica soltanto nel suo compiersi e, alla fine, è politicamente inconsistente e il più delle volte qualunquista o violenta.
La massa di giovani che manifesta a Vicenza, che si mobilita, come già capitato, in nome della pace universale, contro l’americanismo guerrafondaio, contro la globalizzazione affamatrice dei popoli è certamente sincera dei propri sentimenti ma altrettanto ingenua essendo del tutto priva di strumenti per quella riflessione storica che incanalerebbe la loro esaltazione per i miti egualitaristi e pacifisti dentro un tracciato politico. E invece tutto è vago e carico di enfasi, tutto è occasionale e contraddittorio: importante è il movimento, essere di qua e di là, agire, intervenire, protestare, essere contro, inveire contro il nemico che fa schifo. Questo è l’azzeramento della politica sostituita dall’azione fine a se stessa, dall’azione esemplare che giustifica se stessa. E come si fa ad arginare la violenza quando tutto è spontaneistico, occasionale, enfatico? La responsabilità è solo parzialmente di questi giovani che comprensibilmente vogliono dire la loro sul mondo in cui vivono, di questi giovani che sinceramente credono nei loro miti. Il problema è che non hanno leader politici di sinistra che li aiutino a riflettere sul significato della nostra storia e che intervengano per radicare nella realtà le loro mitologie elementari. Così questi ragazzi gratificano se stessi nel semplice movimento che li esalta, e dà loro la sensazione di essere vitali e forti, che li illude di essere importanti. E il modesto politico professionista di sinistra si aggrega a loro, mentre quello cinico e scaltro li usa.
«Il Giornale» del 18 febbraio 2007

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