06 febbraio 2007

Dante. Il Veltro, la profezia, i numeri Ecco svelato il «Codice Alighieri»

La decana degli italianisti anglosassoni, Barbara Reynolds, rivoluziona la vita e l’opera dell’autore della «Commedia»
di Gabriele Pantucci
«Dante drogato» ha intitolato in prima pagina il «Times Literary Supplement», il più prestigioso periodico letterario britannico. In realtà il suggerimento che Dante fumasse cannabis occupa poche righe in un volume di circa cinquecento pagine. Ma è una notizia inedita come la stessa autrice di questo libro, «Dante: The Poet, the Political Thinker, the Man», (edito in Gran Bretagna da I. B. Tauris e negli Stati Uniti da Shoemaker e Hoard) si affretta ad anticiparci nell’introduzione. Anche se poi risulta chiaro che il fatto che Dante possa aver usato degli stimolanti erbacei che lo portarono a visioni da sogno non è la scoperta più importante per l’autrice, Barbara Reynolds. Non sono stati della medesima opinione i vari recensori, a cominciare da Peter Ainsworth, autore del lungo saggio pubblicato sul «TLS». Senza assumere toni scandalizzati hanno ammesso che la «scoperta» della Reynolds era plausibile alla luce dei versi danteschi e dei precedenti storici. È opportuno precisare che fra gli italianisti anglosassoni Barbara Reynolds è probabilmente la più rispettata. La sua traduzione della Divina Commedia (in parte realizzata con Dorothy Sayers) è quella più usata nei Paesi di lingua inglese. Non solo: al suo nome è legato il maggior dizionario italiano-inglese esistente, due monumentali volumi editi dalla Cambridge University Press. Per molti il rispetto per la sua attività accademica si trasforma in stupore quando apprendono che la Reynolds ha 93 anni: negli ultimi due ha lavorato prevalentemente a questo libro. All’inizio ci spiega che dopo aver trascorso un’intera vita professionale parlando di Dante si accumula parecchio bagaglio intellettuale di cui non è facile sbarazzarsi. Ha cercato di rileggere tutto Dante a mente serena e il risultato sono i 53 capitoli più un epilogo di questo libro. In ciascuno di essi ci promette nuove idee che, ammette, sono spesso «radicali e discutibili». D’altra parte ci ricorda che ogni fatto che riguarda Dante è stato discusso. A cominciare da Beatrice: l’opinione prevalente è che fosse la figlia di Folco Portinari, abbia sposato Simone Bardi e sia morta a 24 anni. Ma c’è anche chi ritiene che sia soltanto un frutto dell’immaginazione di Dante. È discusso persino il numero dei figli: tre, cinque, sette... I suoi viaggi, che lo avrebbero portato a Parigi, addirittura ad Oxford. Il libro, che si legge con piacere perché la Reynolds ha uno stile delizioso, è una miniera di notizie sulla vita di Dante. A cominciare dagli studi sul suo scheletro che ci consentono di indicare la sua altezza fra 1,64 e 1,65 metri a quelli sulla sua scatola cranica che ci dicono che il suo cervello pesava 1.470 grammi (il che è superiore alla media). Leggiamo delle sue attività atletiche e delle amicizie «volgari» che ebbe in gioventù, gli scambi di sonetti «sessualmente insultanti» con Forese Donati, cugino di sua moglie. Sarà interessante vedere come reagiranno gli studiosi italiani alla discussione della Reynolds sull’associarsi di Dante giovanissimo a quel gruppo di poeti che sperimentavano nuove ed ardite concezioni letterarie e che conoscevano quelle erbe che troviamo descritte nel «Tractatus de Herbis»: dalla Cannabis sativa alla Aloe vera. Da cui poi il richiamo al primo canto del Paradiso in cui Dante, nell’ascendere al Cielo si paragona a Glauco che nutrendosi d’un’erba s’era trasformato in una divinità marina. Quindi il suggerimento che il Sommo Poeta, forse in compagnia dei Fedeli d’Amore, abbia ingerito sostanze psichedeliche che gli abbiano consentito quell’accresciuta consapevolezza descritta ne La Vita Nuova. Il che avrebbe anticipato quegli stati alterati della coscienza scoperti da Aldous Huxley attraverso la mescalina (ricavata dall’aloe). Ma nonostante l’interesse dimostrato dai critici sono altre le scoperte che la Reynolds considera importanti. Anzitutto aver decodificato (parleremo di un Codice di Dante?) il Veltro del primo Canto con l’allusione «tra feltro e feltro» che interpreta come riferimento alla tecnica per la produzione della carta asciugata tra due feltri (a Fabriano dal 1276 ed a Bologna dal 1298): da cui la forza che Dante attribuisce ai testi scritti e l’imminente imposizione del canone e della legge civile. Riguardo la profezia di Beatrice alla fine del Purgatorio col misterioso 515, in latino DXV (proposto come anagramma di dux), la Reynolds suggerisce che si possa leggere come un riferimento all’indietro cioè all’Inferno dove nel primo canto alla riga 105 leggiamo del veltro. Secondo i critici è filologicamente possibile e «non meno implausibile di altre letture numerologiche di Dante». Originale pure la genesi che la Reynolds suggerisce della Commedia. Partendo dal De vulgari eloquentia che sarebbe stato scritto come una conferenza per l’Università di Bologna, si arriva al Convivio che sarebbe stato scritto con la medesima finalità ma che non avrebbe incontrato il favore del pubblico con la sua congiunzione di poesia e filosofia, deludendo le aspettative finanziarie di Dante che l’avrebbe interrotto dopo il quarto volume mentre ne aveva programmati 15. Si impose allora un completo cambiamento di genere: da cui La Divina Commedia. Dante morì a Ravenna nel 1321, a 56 anni, reduce da Venezia dove con successo aveva sostenuto la causa di Guido da Polenta, il suo protettore. Giovanni Boccaccio aveva allora 8 anni: e trent’anni dopo usciva la sua biografia di Dante, la prima. Nell’Epilogo la Reynolds nota le difficoltà che Boccaccio ebbe a diffondere la sua ammirazione per Dante tra i letterati dell’epoca. La Reynolds cita Giovanni del Virgilio, professore di Retorica all’Università di Bologna, che rimproverò per iscritto Dante di sprecare il suo talento in lavori di volgarizzazione: se avesse scritto un poema in latino avrebbe potuto aspirare ad un dottorato honoris causa alla sua Università. Ma ancora più eloquente è l’esperienza di Boccaccio che non riusciva a persuadere Petrarca - che pure ammirava molto - a leggere Dante. Infine gli inviò una copia dell’intera Commedia trascritta pazientemente da lui. Petrarca infine la lesse: ma le lodi che espresse non esprimevano l’entusiasmo di Boccaccio che, ricordiamo, fu responsabile dell’applicazione dell’aggettivo Divina davanti al poema di Dante.
«Corriere della sera» del 30 gennaio 2007

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