06 febbraio 2007

Carlo Cassola, il volto intimista dell’impegno

«La politica va contestata, ma non con la superficialità dei giovani»
di Giorgio Montefoschi
A un certo punto della sua vita, nella maturità, Carlo Cassola pubblicò una serie di articoli, assai partecipi, sui romanzi di Thomas Hardy. Aveva trovato uno scrittore che gli faceva da specchio. E una straordinaria consonanza. Come Hardy, infatti, che aveva ambientato quasi tutti i suoi romanzi nella contea del Wessex, convinto che non occorresse uscire da lì per confrontarsi con le verità profonde del mondo, così aveva fatto Cassola con i suoi romanzi più importanti, per esempio Un cuore arido, Paura e Tristezza, La ragazza di Bube (ora raccolti nel Meridiano Mondadori curato da Alba Andreini, pp. 2000, euro 55), in quel lembo di terra toscana che ha quali punti di riferimento cittadini Cecina e Volterra e da un lato il mare: campagne di pianura che si perdono in colline dominate da valichi e monti; boschi di castagni, pinete, forre; strade, perlopiù sterrate, a unire paesi di poche anime, poderi, borghi appollaiati su impervie risorgenze. Una terra bruna e rossa, bagnata dall’argento degli ulivi, nella quale - siamo in un periodo d’anni racchiusi fra la Prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra - viaggiano soprattutto treni e corriere. Le corriere restituiscono il senso della salita, le curve, l’aria dell’ambiente chiuso impregnata dell’odore dei fiati umani, dei vestiti, dei cibi cucinati la sera prima e avvolti in un panno, necessari al desinare nei campi. I treni, che lentamente vanno lungo le ferrovie locali, così lentamente da dare la possibilità di scorgere dentro le case ragazze che si pettinano e altre che rifanno i letti, tracciano il paesaggio esemplare della desolazione. Un paesaggio terrestre, costruito a imitazione dell’Idea di solitudine, dell’Idea dell’addio. Soprattutto, dell’Idea della impossibilità di afferrare il senso nascosto della vita, e di essere felici. «Dì la verità, Ada - dice Anna in Un cuore arido - con tutti questi treni che ti passano davanti, qualche volta non ti vien voglia di partire?». Ma Ada, la ragazza dolce e sfortunata che ha perso una mano, le risponde sorridendo che non saprebbe dove andare, e che loro stanno bene lì. Nei romanzi di Cassola, insieme alla convinzione che «l’essenza vera della vita è qualcosa di intangibile», l’amore domina la condizione umana. Nasce dall’attrazione fra i sessi, come una colpa: tanto più forte, quanto maggiore è il desiderio. Conosce, in primo luogo, l’ostacolo quasi insormontabile del corpo femminile. Le gambe, i seni, i peli, le ascelle, il grembo: ogni parte del corpo femminile nasconde, prima della nudità, e dopo, un peso doloroso. Quindi, il piacere - che non è mai descritto, laddove è ampiamente descritta la voglia - piuttosto che confermare o liberare il desiderio, sembra inghiottirlo. (Per questo, forse, è consumato in luoghi miseri o abietti: nei viottoli o nei campi, frettolosamente, per il timore che venga qualcuno; nel buio greve di fumo delle sale cinematografiche; nelle sordide stanze a ore di Livorno). Infine, quando sembra potersi realizzare, l’amore, ecco che subito conosce le difficoltà della vita - la privazione, l’infedeltà, la lontananza - e sparisce. Come la felicità. «Oh, Mario - dice Anna in Un cuore arido - perché amandoci ci facciamo del male?». E Mara, la protagonista della Ragazza di Bube, dopo una delle scene di seduzione più commoventi e erotiche della letteratura italiana del Novecento (lungo il torrente, quando è nuda e si lava e dice a lui prima di non guardarla e poi di riagganciarle il reggiseno; e nel momento sublime dei baci veri, che nessuno dei due conosceva, e si confondono al tripudio della natura; e quando, nascosti, si uniscono sulla branda), cos’altro dice Mara a Bube che dovrà lasciarla, se non: «Oh, Bubino, quanto siamo disgraziati!», avendolo fino a quel momento abbracciato e baciato disperata, dicendogli: «Bube, amore mio»? E per quale motivo, Anna, la protagonista di Paura e Tristezza, ha gli occhi colmi di un pianto oscuro, mentre carezza la testa bionda di Alvise, il ragazzino timido, il suo primo, unico amore? Le trame dei romanzi di Cassola spesso si assomigliano: un amore quasi sempre contrastato, rubato a una sorella o a una amica; una provvisoria illusione; il distacco; il tradimento; l’oblio; il ritorno; la solitudine o la condanna del matrimonio. Ma questo non ha importanza. È importante il fatto che l’amore è l’incarnazione dell’Idea di Dio: sconvolge gli uomini, chiamandoli a un desiderio cieco e irrazionale dell’Assoluto; li tormenta nella consapevolezza del proprio limite e della propria caducità; torna a inseguirli; si allontana. Chi più da vicino è riuscito a scorgerlo, ha la sorte di illuminare, con il riflesso della sua luce - la medesima luce che dona grazia e splendore alla natura - il gelo della vita quotidiana. Chi ha la superbia di dire: lo posseggo, è destinato a pagarne amare conseguenze. Chi non ha nulla dall’amore, non ha nulla in ogni senso, insomma è povero di spirito, povero d’amore, povero di tutto, forse è l’unico che si salverà. Per gli altri, non resta che la rassegnazione. Paura e Tristezza, Un cuore arido, La ragazza di Bube, sono romanzi stupendi. Il tempo, se ce ne fosse stato bisogno, ha fatto giustizia. Punto. L’ultima volta che ho visto Cassola, è stato poco prima che morisse: a Roma, con l’allora direttore editoriale della Rizzoli. Dovevamo provare a convincerlo che pubblicare tre libri all’anno creava un certo affollamento. Lo andammo a prendere al Plaza e ci trasferimmo all’Augustea, a due passi da lì. Cassola sembrava affaticato e stanco. Ordinò un piatto di baccalà al sugo. Mangiava lentamente, la testa china sul piatto, cercando di isolare le spine. Quando gli chiedemmo che intenzioni aveva per il futuro, fece un elenco di libri nuovi, fra romanzi, pamphlet e racconti, che ci atterrì. Allora cambiammo argomento. Gli domandai che faceva, come viveva a Montecarlo, il paese dove si era ritirato, vicino a Pistoia. Rispose testualmente: «Mi sveglio presto. Mi ci metto alle otto e smetto a mezzogiorno. Mangio. Sento la radio. Mi ci rimetto alle quattro. Mangio. Poi vado a letto». Insomma, voleva scrivere, scrivere, scrivere: e basta. Come se questo sprofondare nella scrittura corrispondesse a quella opaca ottusità dell’esistenza nella quale i personaggi dei suoi romanzi avevano vissuto. Come se a lui toccasse di sperimentarla ora, con l’unico mezzo che gli era rimasto.

PROGETTI INEDITI Lo studio di una rivista con Moravia e Pasolini.
In una lettera inviata a Pasolini che avrebbe dovuto scrivere l’editoriale del primo numero, ritrovata tra le carte del regista e scrittore conservate al Gabinetto Vieusseux di Firenze, Cassola chiariva così le sue motivazioni: «Qualcuno si stupirà che sia proprio io a proporre un’azione comune: io che passo per un solitario e disimpegnato... La politica lasciata a se stessa diventa solo una questione di potere. Solo una contestazione più ampia e profonda (che non sia esclusivamente giovanile e che non sia esclusivamente marxista,) può salvare l’umanità dalla rovina».
«Corriere della sera» del 1 febbraio 2007

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