di Paolo Di Stefano
Davanti al dolore non ci sono eroi, pensò Winston, il protagonista di 1984, rinchiuso in una piccola cella per ordine del Grande Fratello. «Se c’è pena, si deve desiderare una sola cosa: che finisca». Il dolore, quello vero, il dolore che non può finire è al centro di tanti romanzi dell’ultima stagione. È possibile che si tratti di una sana reazione della letteratura a tanto dolore finto (tra vernice rossa simil-sangue e squartamenti vari) che in questi anni è passato sotto i ponti delle classifiche dei bestseller. Tra quel dolore e il dolore c’è spesso la stessa differenza che passa tra il GF televisivo e la realtà. Che ogni tanto, dolorosamente, si prende la sua rivincita. Come la letteratura. Perché di fronte al dolore vero, il desiderio della letteratura è uno solo: dire la verità. Non si parla di letteratura cuore in mano. Il patetico è un’altra cosa. Nulla di patetico, per esempio, nel capolavoro dello scrittore francese Philippe Forest Tutti i bambini tranne uno, uscito l’anno scorso (Alet Edizioni). Basti citarne una sola frase, paradossale, sconvolgente: «Il lungo anno in cui morì nostra figlia fu il più bello della nostra vita». Com’è possibile? E’possibile, perché il 1996 è stato l’ultimo anno in cui la piccola Pauline è rimasta viva, con suo padre e sua madre: «Qualsiasi cosa riservi l’avvenire non staremo mai più tutti e tre insieme». E poi la morte, aggiunge Forest, anche la morte di una bambina di quattro anni, «non cancella tutta la bellezza del mondo». Nella bellezza del mondo c’è la letteratura, la possibilità di scrivere (e di leggere) un libro intollerabile. Così, Forest ha scritto un secondo romanzo, Per tutta la notte (sempre Alet), in cui riprende ostinatamente la storia di Pauline, interroga la letteratura sul nonsenso della sua morte, lascia parlare sua moglie Alice, che sembra opporsi all’illusione del marito, l’illusione di salvare il nome di Pauline nell’«unico spazio» che le è rimasto accessibile: il romanzo. Non è curioso che, mentre escono gli atti di un convegno tenutosi qualche anno fa a Modena e intitolato Diamo parole al dolore (Franco Angeli), la scrittrice Michela Franco Celani senta l’esigenza di dare voce a una madre che ha vissuto la stessa tragica esperienza di Forest (La stanza dell’orso e dell’ape, Mursia) e lo fa in una sorta di «bollettino di guerra», ma insieme con straordinaria limpidezza e poetica lievità? E non sarà un caso se anche una scrittrice collaudata di saggistica e reportage come l’americana Joan Didion, ha voluto dar conto dell’anno che ha cambiato la sua vita, perché «una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita». La vita che la Didion conosceva bene, da quarant’anni, era quella di suo marito John, stroncato da un infarto la sera del 30 dicembre 2003, mentre stava seduto in poltrona a chiacchierare. A questo punto, il lettore avrà forse un moto di insofferenza verso il Piccolo Fratello: non c’è niente di più allegro di cui parlare? La cosa strana è proprio questa: che L’anno del pensiero magico (Il Saggiatore) è anche un libro felice, che con uno stile anestetizzato attraversa tutte le stazioni del dolore (l’incredulità, lo stordimento, l’impotenza, la rabbia) per arrivare alla liberazione, quando un giorno l’autrice si accorge che nei suoi ricordi non c’è più l’immagine di John. «Viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli (i morti, n.d.r.), lasciarli andare...». Ognuno escogita le sue strategie, per liberarsene: James Ellroy aspettò quasi cinquant’anni per raccontare l’inspiegabile omicidio di sua madre. Ne venne fuori un capolavoro: I miei luoghi oscuri (Bompiani). Insomma, arriva un momento in cui la letteratura si impone. Ridiventa sensibile al dolore. Già, il Piccolo Fratello dimenticava di segnalare che in questi giorni è uscito da Rizzoli un romanzo di Laura Bocci intitolato proprio così: Sensibile al dolore. Come diceva Canetti, «le parole sono esseri sensibili al dolore».
«Corriere della sera» del 12 dicembre 2006
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