22 dicembre 2006

Democrazia fasulla

«Oggi la partecipazione al voto ha luogo all’insegna di uno scarso interesse, come in un rito al quale si pensa di non potersi sottrarre. Non c’è entusiasmo per il proprio ruolo, non c’è consapevolezza del potere del proprio voto, anche perché si vedono al potere sempre le stesse persone, che nessuno apprezza perché considerate incapaci o non all’altezza di governare il Paese. In questa atmosfera una democrazia muore, e muore anche se la liturgia tipicamente democratica viene rispettata in modo scrupoloso»
di Vittorino Andreoli
1 La caratteristica che domina nei politici, il primum movens, sembra essere l’amore spietato, sviscerato, irrazionale per il potere
2 Il rischio è che la mia delega non venga data a un uomo capace che si preoccupa della cosa pubblica, ma ad un abile attore
3 In questa atmosfera goliardica o peggio boccaccesca, il governo della nazione è portato avanti con la strategia dello stimolo-risposta
4 Le monarchie (anche quelle assolute) hanno sempre avuto giullari e buffoni di corte, che in democrazia chiamiamo intellettuali

Una società non può reggersi senza un governo, cioè senza un’amministrazione che tenda a garantire i princìpi di uguaglianza e di giustizia e il rispetto dei cittadini come persone. Tra le varie forme di governo possibili, quella democratica, con la delega dei cittadini a rappresentanti riuniti in un Parlamento, è senz’altro la meno imperfetta. Sono ben lontano dall’esserne entusiasta, ma le alternative sono meno accattivanti. Dunque occorre accettare la democrazia, sostenerla e cercare di diminuirne i difetti, tenendo conto che alcuni sono strutturali e quindi non eliminabili, altri invece possono essere tolti di mezzo.
Sono ormai sufficientemente esperto di governi per sapere che gli uomini sono, per la democrazia, altrettanto importanti dell’istituzione stessa: anzi, sono l’humus che ne dà il senso. Con uomini diversi può apparire diversa persino la stessa forma di governo: con alcuni sbiadita, minimale e corrotta, con altri così brillante da stimolare l’orgoglio di farne parte come cittadini.
Tuttavia oggi nemmeno con l’ottimismo più estremo e ingenuo si può sostenere che gli uomini politici (o la classe politica nel suo insieme, poiché ormai è diventata una casta che esercita questo particolare mestiere) siano degni del ruolo che ricoprono, in quanto sembrano in buon numero dominati dall’interesse privato e pervasi da un livello di ignoranza che, con rare eccezioni, sembra ormai diventata la dote necessaria per dedicarsi a questa attività. Attività definita «esercizio del potere», ma di un potere inteso come «posso e dunque faccio perché posso», non perché sia utile ai cittadini.

È forte la tentazione di dire che ci troviamo in una condizione di governo apparente e che in realtà la vita si svolga dentro una giungla vera e propria, e quindi senza che lo Stato sappia imporre le proprie regole.

Ma voglio resistere a questo disfattismo, anche se non posso non ricordare che la tesi di fondo di questo lungo percorso tra i princìpi è proprio che stiamo vive ndo una crisi tale da non riconoscere più l’autorità preposta ad approvarli e difenderli, e quindi ci troviamo al capolinea di una storia di decadenza e di agonia forse irreversibile. Una visione che ad alcuni sembrerà eccessivamente pessimistica ma che ho dichiarato fin dall’inizio del nostro viaggio, almeno nell’intento di tenere sveglio ogni cittadino – ciascuno di noi – di fronte a un pericolo già sperimentato da altre civiltà, che in parte non se ne sono rese conto e hanno probabilmente relegato in qualche antro tutte quelle persone (le cosiddette Cassandre) che avevano descritto la realtà così com’era.


DELEGA PARTECIPATA. Mi pare che il principio della partecipazione al governo, almeno nella delega e nella consapevolezza di ciò che tutto questo significa, si sia fortemente affievolito, fino ad apparire ormai agonizzante. Non mi riferisco solo alle scarse percentuali di votanti – di chi esprime la propria scelta – ma al diffuso disinteresse per la politica: totale nel mondo giovanile, assai prossimo a questo stadio anche nelle altre fasce di età. L’impressione è che in realtà si tratti di una democrazia subita, di una pseudo-democrazia, proprio perché non partecipata e vissuta con quel senso di vera sfiducia che spinge a dire: «Andrò a fare la mia scelta, ma tanto non cambierà nulla» o, in alternativa, «è inutile scegliere, tanto sono tutti uguali». Quello che appare sembra camuffato, la politica diventa un mestiere per fare denaro e ottenere potere grazie a una delega, delega che a sua volta alimenta un’oligarchia e persino una tirannia, naturalmente sotto sembianze democratiche.

La partecipazione al voto ha insomma luogo all’insegna di uno scarso interesse, come in una sorta di liturgia, di rito al quale si pensa di non potersi sottrarre, come quando si devono fare gli auguri in occasione di un compleanno.

Non c’è entusiasmo per il proprio ruolo, non c’è consapevolezza del potere del proprio voto, anche perché si vedono al potere più o meno se mpre le stesse persone, che non riscuotono apprezzamenti perché considerate incapaci oppure non all’altezza di governare il Paese.
In questa atmosfera una democrazia muore, e lo fa anche se la liturgia tipicamente democratica (quella del voto) viene rispettata in modo scrupoloso. Di fatto molta gente non segue la politica e ciò è dovuto a numerose circostanze, alcune delle quali certamente costruite e pilotate.

PROCEDERE LEGISLATIVO. La prima è la totale disinformazione del procedere legislativo, delle modalità delle decisioni, delle motivazioni che hanno portato a quella scelta e non a un’altra possibile. Tutto si svolge all’insegna della contrapposizione, per cui se una parte politica dice una cosa quella avversaria si affretta ad affermare il suo contrario. Ne consegue che nelle scelte politiche non emerge alcuna razionalità se non quella del «lui vuole questo, ma noi vogliamo esattamente l’opposto». E tutto il dibattito democratico si svolge in un clima di contrapposizione tra gruppi o persone che in comune spesso sembrano avere un’unica caratteristica: la voglia di potere e la poca intelligenza politica.
In un simile clima, nel quale non emergono i perché delle diverse scelte, tutto viene spettacolarizzato in un teatrino delle parti. E al cittadino comune risulta impossibile capirci qualcosa. Al tempo stesso non è possibile nemmeno una delega fideistica data a un uomo in particolare. Nelle ultime elezioni il sistema prevedeva di prendere l’intero pacchetto alla cieca e senza alcuna possibilità di scelta.
Ma anche scegliendo un certo candidato, questi in Parlamento si trova poi costretto a sostenere le scelte imposte dalla coalizione, in modo tale che la democrazia viene trasformata in una sorta di recita di burattini.
Sarebbe molto istruttivo analizzare e radiografare la vita del politico delegato dal popolo: si vedrebbe in non pochi casi un poveretto (umanamente e politicamente, ma spesso ricco dal punto di vista economico) che non esprime i l proprio parere ma che spesso semplicemente riceve una velina che gli indica come comportarsi, come votare, con l’imperativo di non dire nulla al di fuori del previsto e di fare riferimento sempre al capo della coalizione o di un partito che la compone. I delegati del popolo sono frequentemente illustri esecutori che in aula devono solo pigiare il bottone indicato, e in certi casi deprecabili farlo anche per chi non è in aula.
È bene sorvolare su queste miserie che però – se conosciute – forse aiuterebbero a non credere più di tanto alla grandezza dei nostri politici, "potenti" solo perché grazie alla nostra delega premono bottoni senza consapevolezza e senso di responsabilità, dal momento che sanno di dover compiere la scelta indicata da altri finendo per conoscere la verità dai giornali con la stessa superficialità di cui fanno sfoggio nell’adempimento delle loro funzioni.
Tutto questo viene qui richiamato non certo per denigrare gratuitamente chi fa politica ma per ricordare che sarebbe tempo di mettersi a disposizione dello Stato e della res publica, quantomeno al fine di allargare il cerchio dei delegabili e quindi evitare di dover sopravvivere democraticamente con gli stessi personaggi di cui ormai non sopportiamo più nemmeno il volto.
Comincio proprio dal mio modo di pensare, che ha fatto sì che non mi sia messo in politica, nonostante mi fosse stata prospettata qualche occasione che si potrebbe definire ghiotta. Bene, a questo punto dovrei considerarlo un fallimento della mia esistenza, un peccato di omissione per il quale è doveroso recitare un mea culpa, e penso che molti come me abbiano o possano aver avuto questa stessa percezione: un segnale di come la democrazia non sia vissuta nemmeno da chi si indigna e vorrebbe che lo Stato funzionasse in maniera diversa.
È comunque strano che la caratteristica dominante nei politici, il primum movens, sembri l’amore spietato, sviscerato, irrazionale per il potere. Uno ha sognato fin da piccolo di diventare presidente della Repubblica, un altro non ha mai fatto nulla per caratterizzarsi in modo ben definito diventando così il candidato ideale, buono per tutte le stagioni. Molti sono entrati giovanissimi in politica e, una volta defunti, sono stati esposti nella camera ardente della Camera o del Senato.
Ho conosciuto alcuni politici che, senza quel ruolo, sarebbero forse finiti in manicomio (quando c’erano) per oligofrenia o demenza precoce che però, viste in chiave politica, costituivano non patologie ma persino tratti distintivi di caratteri forti.
TELEVISIVA DEMOCRAZIA. Ma il pericolo maggiore, già ampiamente sperimentato, è quello della cosiddetta «democrazia televisiva», e dunque del condizionamento al voto che segue le stesse regole degli spot pubblicitari, per cui quando si sente ripetere in modo incessante un nome si finisce per averlo in testa e considerarlo importante. La pubblicità non tenta di trasmettere un messaggio vero o utile, ma semplicemente di renderlo fascinoso e quindi in grado di attaccarsi alla memoria e ai sentimenti.
Le parole più fortunate della pubblicità non hanno alcun significato ma funzionano come slogan, un semplice suono. Ricordo ancora un aperitivo che ha avuto una fortuna strepitosa poiché dava «la carica», e un dentifricio che conteneva il «gardol»: nessuno ha mai saputo cosa fosse, e probabilmente non era niente al di là di un puro suono.
Sulla base di questo stesso meccanismo, un partito ricorda l’incitamento che si grida alla nazionale di calcio, un altro un bel fiore primaverile o una pianta citata nella Bibbia... E un candidato diventa politicamente forte anche in base al tipo di occhiali che porta o al chirurgo estetico che lo segue per rammendarlo come si fa con certi calzini.
Il rischio dunque è che la mia delega non venga data a un uomo (intendo a un uomo capace, ricco di umanità e che si preoccupa della cosa pubblica), ma a una specie di dentifricio, di attore, di presentatore del concorso di Miss Italia. È stato dimostrato che quasi tutti i visi noti in televisione, non importa per quale funzione o capacità, se si presentano alla elezioni vengono eletti (gli esempi sono moltissimi).

Vale cioè di più una caratteristica fisica, il look giusto, che un’idea, mentre a contare dovrebbero essere soprattutto la forza, il carisma, la capacità di interpretare i bisogni della gente e la capacità di amministrare la cosa pubblica.

Si arriva a estremi tragici: è noto che se un capo di Stato dichiara una guerra almeno per un certo periodo di tempo gode di una popolarità in forte crescita, tanto che gli uomini di marketing cui è affidata l’immagine politica di questo o quel leader in certi casi arrivano a suggerire al loro assistito di dichiarare una guerra, anche sotto mentite spoglie, unicamente per salvarsi la faccia. È utile poi ricordare che le forze armate esercitano un certo fascino, persino da noi.
Ma per constatare de visu quale livello di popolarità possano godere presso la popolazione basta stare un po’ in Inghilterra. Recentemente in una località della Scozia settentrionale era attraccata una nave da guerra: ho assistito a un vero e proprio pellegrinaggio per vederla, filmarla, chiamare il comandante per un autografo (che naturalmente ha negato perché avrebbe dovuto avere il permesso della regina o del primo ministro). Al politico piacerebbe molto indossare la divisa dei dragoni – anche se magari è renitente alla leva – o dichiarare guerre, per farlo saprebbe inventare nemici e attentati contro Sua Maestà britannica.
Anche da noi vige una democrazia da piccolo schermo e di minimo cabotaggio: mi pare una vergogna, un limite di una democrazia che non è più seguita dalla gente. A questa per formarsi un giudizio restano solo informazioni che sono quelle tipiche dello spettacolo e che servono anche per nascondere ai cittadini quanto si dovrebbe invece dare nel dettaglio per consentir loro di rendersi conto di cosa fanno i loro delegati in Parlamento e il proprio p artito al governo.

POVERTÀ DEL POLITICO RICCO. In questa atmosfera boccaccesca, o nel migliore dei casi goliardica, il governo della polis, della nazione, è portato avanti con la strategia dello stimolo-risposta. Quando un qualsiasi capo del governo entra a Palazzo Chigi con l’aria del padreterno non sa cosa farà quel giorno al di là di cerimonie piacevoli, di rappresentanza e di giochetti come parate, presenze a convegni e corsi, con applausi garantiti dalla claque. Ma subito si trova davanti a uno stimolo: e allora risponde, o meglio interpella i consiglieri sul tipo di riposta più adatto, e questi lo consigliano che è meglio sentire i leader dei partiti della coalizione, i quali non sono d’accordo e chiedono una riunione di maggioranza. Intanto arriva il secondo stimolo al quale il premier dà una risposta diretta, ma che suscita la protesta degli alleati che non sono stati interpellati. In questo secondo caso bisogna fare una rettifica e sostenere che non si è deciso nulla ma che si è solo ventilata una decisione, anzi, un’ipotesi di decisione proprio per rispetto nei confronti degli alleati. E si giunge al terzo stimolo, troppo pericoloso però perché venga preso in considerazione.

Allora lo si scarica su un sottosegretario che comincia a compilare l’informativa e stende la bozza su cui si terrà un giro di riflessioni, un brain storming che poi sarà valutato dal capo del governo.

Finalmente arriva l’amico o l’amica, e allora si può esercitare il potere vero, che non è sempre a vantaggio del popolo, ma che concede finalmente un attimo di svago al politico stressato dalla voglia di decidere e dalla consapevolezza di non poterlo fare.
Un giorno un capo di governo mi faceva presente che se in quel momento avesse voluto prendere una matita rossa e blu per leggere la relazione che gli avevo portato e sottolinearne i passi salienti, come faceva da studente, avrebbe dovuto chiamare la segretaria per avere la matita. La segretaria a sua volta, se quella benedetta matita non si fosse trovata nella cancelleria dell’ufficio di presidenza, avrebbe dovuto compilare una richiesta per averla, richiesta che il presidente avrebbe dovuto firmare motivandola e precisando il colore della matita, dato che ne esistono diversi tipi. A questo punto la segretaria avrebbe inviato la richiesta con procedura d’urgenza al capo ufficio della logistica, che avrebbe controllato se esisteva una voce del bilancio in cui inserire la spesa. Fatto questo avrebbe deciso l’acquisto, controfirmato dal presidente o da un suo delegato, e quindi indetto una gara d’appalto, poiché non si può comprare nulla per lo Stato se non con una gara pubblica bandita naturalmente sulla Gazzetta ufficiale. Espletata anche questa procedura, si doveva nominare una commissione che avrebbe valutato le offerte inviate in busta chiusa e deciso quale fornitore potesse soddisfare la richiesta. Finalmente si sarebbe ricevuta la matita procedendo allora al pagamento disposto dal responsabile contabile e finanziario di Palazzo Chigi. Questa è la procedura e, data l’urgenza con cui il presidente vuole leggere la mia relazione dedicandole attenzione e sottolineandone i passi salienti, non resta che fare una cosa semplicissima: regalargliela! Ma a questo punto il presidente scatta in piedi scandalizzato per dirmi: «Ma non lo sa che non posso ricevere regali, che potrebbero essere un modo per ottenere favori?». Si tratta, infatti, di un’azione contro lo Stato per la quale potrebbe essere accusato di interesse privato in atti d’ufficio... Per fortuna quel giorno il mio interlocutore decise di usare un lapis, anche se io ero sicuro che non l’avrebbe mai letta. E così il dramma ebbe fine e me ne dovetti andare perché era arrivata la telefonata di un capo di Stato, che la segretaria non nominò in mia presenza perché doveva rimanere segreto: si trattava di un leader amico che voleva accordarsi per le vacanze estive desiderando trascorrerle come al solito in Toscana.
Quello che ho sin qui descritto è uno Stato privo di vere logiche strategiche, che semmai rimangono semplici promesse elettorali anche se, come si è detto, è meglio non farle mai o rimanere sul vago fondando invece tutto sul look e quindi esibendosi – ad esempio – mentre si fa un po’ di jogging o si sale in bicicletta o, come segno di impegno e di grande efficienza, si vola con un aereo privato "per affari di Stato" da una residenza all’altra. Questo piace, questo convince sulla bontà di un candidato, questa è democrazia!

RITIRARE LA DELEGA. È fin troppo chiaro che in questo modo il governo della polis può non funzionare affatto: anzi, può rivelarsi del tutto incompetente, o addirittura mettere in evidenza – ad esempio – che il capo dell’esecutivo sta ricoprendo una carica pubblica per esercitare funzioni di pertinenza personale. A questo punto è necessario che accanto al principio che delega un governo a governare – e questa è la caratteristica che lo definisce – vi sia e sia applicabile un principio per cui in caso di non funzionalità tale delega possa essere revocata dai cittadini.
Questa funzione non rientra però nelle possibilità delle democrazie o pseudo-democrazie occidentali, e nella nostra in particolare. Poiché gli elettori sono chiamati a esprimere la propria delega ogni cinque anni, rimane stabilito come un’investitura divina che un Parlamento una volta eletto rimane in carica anche se non rappresenta più la volontà degli elettori. In casi estremi, il potere passa addirittura di mano attraverso alchimie politiche e logiche perverse. Così chi in teoria detiene il potere – il popolo – può solo assistere a giravolte che dissipano sia il tempo da riservare alla soluzione di problemi urgenti sia il denaro pubblico destinato a migliorare i servizi e dunque la vita dei cittadini, cominciando dalla loro sicurezza.
Questa è un’anomalia gravissima che inficia lo stesso sistema democratico e lo trasforma in una forma che definirei di "dittatura" sia pure parlamentar e (che di fatto è una oligarchia) che il popolo è costretto a subire.
È pertanto necessario che il popolo abbia sì il potere di scegliere, ma anche quello di revocare la delega e di cambiare quanto deciso. Dunque occorre che ogni democrazia, per essere veramente tale, preveda l’espletamento di questa volontà in tutte quelle occasioni in cui il potere sia andato oltre o si sia occupato di questioni che non erano previste o che non rientrano nella delega.
Uno dei casi in cui ciò deve poter avvenire è quando un governo decide di entrare in guerra, e quindi di usare una politica di morte, poiché la guerra viene fatta per uccidere e si fonda sull’eliminazione fisica del nemico, di certo non nella ricerca di un accordo o di mediazioni che impediscano di raggiungere un punto di non ritorno. Lo abbiamo detto chiaramente: la delega politica non include quella dei princìpi primi, che semmai sono di pertinenza morale, appartengono a ciascuno e non sono certo delegabili a un politico o a un partito. Questi ultimi hanno semmai il dovere e il compito di amministrare uno Stato, non di redigerne i contenuti morali, che sono sempre individuali e non possono essere riportati alla morale del capo dello Stato o del governo. Se così fosse, allora si tratterebbe di una dittatura travestita di democrazia. Ed è quasi inutile affermare che esempi del genere sono sotto gli occhi di tutti.
Offende uno dei princìpi fondamentali della democrazia il fatto che un politico, una volta raggiunto il potere, si disinteressi totalmente del popolo che lo ha insediato. È curioso e triste vedere come i delegati dopo essere stati eletti non si mescolino più con i cittadini, non mantengano alcuna relazione con loro. Nelle forme più degenerate li vediamo talvolta percorrere le vie cittadine solo se queste sono state preventivamente transennate, con la gente tenuta lontano, e se ciò non accade è solo perché il politico è circondato da un manipolo di guardie del corpo che rende comunque impossibile avvic inarlo e parlargli.
Una condizione assurda per la democrazia, almeno per quella concezione nata in Grecia, nell’agorà, che considera proprio la piazza il luogo in cui ci si raccoglie per discutere le decisioni politiche. Mi rendo conto che la dimensione dello Stato è cambiata, e che anche i tempi sono lontani da quella partecipazione, ma non al punto di blindare il mio delegato, il capo di governo che io ho voluto e che però non si mescola al popolo perché lo teme.
In occasione di un convegno ho visto un presidente giungere con due ore di ritardo, scortato da nove auto della polizia, dopo che ogni incrocio e ogni possibile punto di incontro con la gente era stato posto nella condizione di massima sicurezza.

Capisco le necessità di vigilare in un momento di tensione. Ma che razza di democrazia è quella che si barrica? Certo, da parte di un politico un simile comportamento è espressione inconscia di aver tradito la fiducia che gli era stata espressa nella delega.

È comunque vergognoso vedere taluni minus habentes che, per il semplice fatto di essere protetti da guardaspalle muscolosi, credono di detenere un potere enorme come se fossero dèi o superuomini, mentre sono solo poveracci circondati dalla disistima per il loro comportamento politico, per aver tradito cittadini che avrebbero il sacrosanto diritto di poterglielo dire senza rischiare di finire in galera per vilipendio.
Se questo fosse possibile, forse la gente sarebbe anche più attenta all’operato dei politici e finalmente i cittadini diverrebbero i veri controllori del comportamento dei propri delegati poiché – è bene ribadirlo – sono soltanto delegati: sono "qualcuno" solo perché il popolo li ha eletti, mentre sovente pensano (sbagliando) di essere strutturalmente potenti, esseri superiori, sacri e intoccabili, o comunque posti nella condizione di esserlo.
Se fosse applicabile questo principio – il principio della revocabilità – allora la democrazia sarebbe finalmente compiuta e i delegati dive rrebbero persone responsabili: ogni giorno agirebbero per soddisfare i bisogni della gente e la sua esigenza di poter vivere serenamente, ben sapendo che i cittadini non vogliono fare la guerra a nessuno, ma semplicemente creare le condizioni perché le loro famiglie possano condurre un’esistenza tranquilla e i loro figli guardare al futuro con speranza, nella certezza che c’è chi si preoccupa di loro. Il voto invece non è davvero democratico: si tratta di una consultazione per eleggere personaggi intangibili o veri e propri tiranni mascherati di democraticità che spesso hanno agito con l’inganno pubblicizzando sapone e dando invece soda caustica. Ormai mi sembra che non ci sia più nulla da fare: semmai questi personaggi ci penseranno poco prima delle prossime elezioni, quando torneranno a mettersi in forma, a frequentare ambienti stimolanti per sprizzare vitalità, o cominceranno a promettere e persino a fare regali con i denari dello Stato, poiché della res publica non sembra importargliene molto. Come dire? Se muore Sansone allora possono crepare anche tutti i Filistei.
FINE DI UNA CIVILTÀ. Mi dispiace tornare a ripeterlo, ma sento spirare attorno a me un’aria di fine della politica, di una civiltà che ha inventato la democrazia, dei princìpi che non piacciono in quanto sono sempre dei limiti alla licenza di fare ciò che si vuole sulla base del potere che si cerca sempre di ottenere e di esercitare fino all’ultimo. Se questo accade non si vive più in uno Stato ma in una giungla in cui si può fare ciò che si vuole detenendo il potere e l’intangibilità.
Ma questa non è democrazia, e la storia del nostro Paese non può cadere ancora una volta dentro le secche di una dittatura poiché ne porta ancora impresse le stigmate, almeno nella memoria di molti.
A me sembra che persino il principio in base al quale lo Stato deve governare sulle esigenze e il mandato dei cittadini – così come la revocabilità della delega – siano completamente morti, e che nessuno o pochi se ne preoccupino. Nemmeno gli intellettuali s’indignano di fronte a questa situazione: forse perché si sono ritagliati uno spazio di potere, e così si limitano a esaltare chi conta. Una maniera acuta per farlo è quello della critica lieve, dei talk show televisivi. Del resto non bisogna dimenticare che le monarchie (anche quelle assolute) hanno sempre conosciuto giullari e buffoni di corte. Ora in democrazia questi casi umani li chiamiamo "intellettuali".
«Avvenire» del 10 dicembre 2006

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